Il 2017, in Venezuela, è iniziato all’insegna di nuovi scontri tra l’opposizione e il governo di Nicolas Maduro. Come stabilito dal patto fra le sue varie componenti, la Mesa de la Unidad Democratica (Mud) ha cambiato il presidente della Camera e le principali cariche nell’Assemblea, dove risulta maggioritaria dopo le elezioni del dicembre 2015. È finito il turno di Henry Ramos Allup, leader di Accion Democratica (il centrosinistra durante la IV Repubblica) e vicepresidente dell’Internazionale socialista.

HA ESERCITATO l’incarico a colpi di strappi e provocazioni, puntando tutto sulla revoca di Maduro, la fine del «regime» e delle code entro sei mesi. Nessuna delle promesse si è realizzata. In compenso, sono aumentate le dichiarazioni bellicose da parte di un Parlamento incredibilmente poco frequentato dai deputati di opposizione. Un Parlamento dichiarato in «desacato» (disobbedienza) dal Tribunal Supremo de Justicia (Tsj), il massimo organo destinato a presiedere agli equilibri dei 5 poteri su cui si basa la democrazia venezuelana, centrata sulla figura del presidente. Il motivo è quello di aver voluto comunque inserire tre deputati accusati di frode durante le ultime parlamentari e per questo in attesa di sentenza.

UNA DECISIONE confermata dal nuovo presidente dell’Assemblea, Julio Borges, di Primero Justicia, il partito dell’ex candidato presidente Henrique Capriles, sconfitto prima da Chavez e poi da Maduro. Borges ha riproposto l’ossessione della Mud, far fuori il presidente senza aspettare le elezioni del 2018: se non con il referendum revocatorio, bocciato per inadempienza delle norme, con altri marchingegni o quello dell’impeachment, benché non sia contemplato dalla costituzione. Borges, che si è fatto conoscere per un programma televisivo giustizialista prima dell’arrivo di Chavez (da qui il nome del partito, Prima la Giustizia), ha immediatamente annunciato che la sua compagine non si presenterà all’incontro di dialogo con il governo previsto per il prossimo 13 gennaio sotto l’egida dell’Unasur e del Vaticano.

HA ANCHE invitato le Forze armate bolivariane al colpo di stato. In risposta, ieri un comunicato ufficiale in cui le Fanb, dirette dal ministro Vladimir Padrino Lopez, ribadiscono la loro fedeltà alla Repubblica, al presidente e alle massime istituzioni dello stato e respingono «gli atteggiamenti provocatori di una parte del Parlamento».

INTANTO, dal carcere militare dove sconta una condanna a 14 anni per le violenze di piazza del 2014 (43 morti e oltre 850 feriti), il leader della destra più accesa, Leopoldo Lopez (Voluntad Popular) ha rincarato la dose. La sua formazione è da sempre fautrice di sanzioni internazionali al paese, che spera vengano inasprite dall’assunzione di incarico di Trump negli Usa: complice la nomina del prossimo segretario di Stato, Rex Tillerson, ex dirigente della Exxon Mobil, multinazionale in guerra aperta con Maduro per il controllo del petrolio nelle acque contese con la Guyana.

MADURO ha proceduto al consueto rimpasto di inizio anno, presentando nuove nomine. Al ministero del Petrolio va ora Nelson Martinez, già a capo di Citgo, la raffineria nel Texas controllata dalla compagnia petrolifera statale Pdvsa, che rappresenterà il paese all’Opec. Come ha ricordato Ignacio Ramonet in un articolo che comparirà nel Diplo il 17, quella di aver conseguito la riduzione del prezzo del barile con i paesi Opec e non Opec è stata una delle vittorie più significative di Maduro, insieme all’alto profilo tenuto alla presidenza di vari organismi internazionali.

Alla vicepresidenza, è stato nominato Tarek El Aissami, governatore dello stato Aragua, a cui toccherebbe sostituire Maduro in caso di sconfitta al referendum revocatorio. Aissami ha definito «deplorevole, razzista e antipopolare» l’opposizione e illegittime le sue decisioni parlamentari.