Dei quasi 240 miliardi totali da spendere in 5 anni, al capitolo sanitario ne sono riservati circa 20, provenienti dai fondi europei Recovery and resilience facility e React-Eu più stanziamenti ricavati nelle finanze pubbliche. A sua volta, la «missione Salute» si divide in due componenti. La prima riguarda finanziamenti e riforme a favore della sanità territoriale (9 miliardi). I restanti 11 miliardi saranno destinati al rafforzamento delle attività di innovazione e ricerca svolte da ospedali e centri di ricerca nel campo biomedico.
Andiamo con ordine. La sanità territoriale è il settore che si è dimostrato più fragile all’arrivo della pandemia, dunque era prevedibile che il governo volesse metterci mano. Il Pnrr prevede azioni sul piano normativo. Un decreto previsto già per il 2021 introdurrà nuovi standard «strutturali, organizzativi e tecnologici omogenei» per uniformare servizi molto diseguali tra le regioni. Un’altra riforma riguarderà il settore della prevenzione, da ristrutturare «in linea con l’approccio One Health», cioè «una sola salute»: gli spillover virali dei pipistrelli mostrano la necessità di occuparsi della salute umana, degli ecosistemi e del clima come unico sistema interdipendente.
Dal punto di vista degli investimenti sul territorio, il piano prevede la creazione di 1.288 «case della comunità» sul modello emiliano: saranno piccole strutture in cui l’assistito troverà il medico di base (associato a colleghi in modo da garantire la continuità del servizio sette giorni su sette), l’infermiere per piccoli interventi ambulatoriali, l’assistenza psicologica e quella sociale, con le attrezzature per la diagnostica di base. L’obiettivo è archiviare il modello attuale dello studio medico individuale aperto poche ore al giorno, in cui recarsi soprattutto per le ricette e al massimo una visita sommaria, impraticabile in tempo di pandemia.
A fianco alle «case», il Pnrr prevede la creazione di 381 ospedali di comunità, centri clinici con 20-40 posti letto a gestione infermieristica per degenze e interventi terapeutici a bassa intensità che non richiedono un ricovero ospedaliero. Per garantire la prossimità assistenziale, il governo punta a rendere l’abitazione stessa «il primo luogo di cura», sfruttando al massimo la «telemedicina» (cioè il monitoraggio telematico dell’assistito da parte del medico) e la creazione di «centrali operative territoriali» presso ogni Asl da cui gestire servizi domiciliari, assistenza ospedaliera e la rete di emergenza-urgenza.
L’innovazione della rete ospedaliera riguarderà l’aggiornamento delle attrezzature, il rafforzamento delle misure antisismiche e la creazione di 3.500 letti di terapia intensiva supplementari, che farà salire la dotazione a 14 posti letto ogni centomila abitanti (circa una volta e mezza quella precedente alla pandemia). Per la formazione dei nuovi medici, previste 2.700 borse di studio aggiuntive per i corsi specialistici per i medici di medicina generale e 4.200 contratti in più per la formazione specialistica. Negli ospedali sarà incentivata l’attività di ricerca traslazionale, mirata cioè allo sviluppo di prototipi di possibile applicazione clinica.
Le ambizioni del piano dovranno confrontarsi con la difficoltà di intervenire su 20 servizi sanitari regionali distinti, alcuni delle quali (quello lombardo in primis) già in corso di riforma. Alcune misure, poi, sono già legge da anni. Le case della comunità, pur con altri nomi, erano presenti nella legge Balduzzi del 2012 ma sono rimaste in gran parte sulla carta: stavolta serviranno incentivi più incisivi per spingere i medici di base ad associarsi. A meno di non optare per una loro internalizzazione nel servizio sanitario nazionale, visto che oggi sono liberi professionisti in convenzione.