Nel suo «Io, Nessuno e Polifemo», messo in scena di recente a Napoli, Emma Dante privilegia un linguaggio «napoletano»: insieme cinico e profondo, sfottente e melanconico. Il suo Ulisse/Nessuno è un guitto avventuriero, farfallone e sciupafemmine che rivendica, nondimeno, la sua fedeltà a Penelope. Mentre lui professa la sua devozione, l’elemento «tragico», che Dante ama, torna in scena. Dal coro di tre donne/marionette, emerge Penelope, nel suo velo/tela di sposa che si srotola sul pavimento. Nel culmine dello sproloquio di Ulisse, il velo diventa sudario che l’avvolge interamente, coprendole la testa. Penelope muore come sposa nel momento in cui come donna è messa in pausa.

Spesso, nel matrimonio la donna viene interrotta nella sua passione. Alla sua domanda, «Chi sei?», lo sposo risponde: «Nessuno». L’uomo può confondere la sposa con la madre e vedere in lei un antro/ricovero pieno di cose buone, con cui sfamare il suo desiderio, ma anche abitato dal mostro Polifemo (che ha preso il posto di suo padre).

In un luogo simile è meglio infilarsi di nascosto, in incognito. Privo di nome, perché privo di padre, in un alloggio che può abitare solo come figliol prodigo della madre (tornato come docile pecora), l’uomo si comporta come un viandante, un occupante clandestino e passeggero.

Ciò che nell’uomo interrompe la disposizione erotica della donna, è la sua tentazione di tornare come inquilino nello spazio di lei, di abitarlo come parte del suo corpo e non come ospite desiderante e desiderato. Il problema è come tornare nel luogo di cui si è stati parte, come stranieri in cerca di nuove terre e senza essere colpiti dalla nostalgia che espone al rischio di essere fagocitati.

Gli antichi greci interpretavano i sogni in cui si giace con la propria madre, secondo due prospettive opposte: conquista di suolo o morte. Si può andare incontro alla donna camminando sulle orme paterne per conquistare il proprio spazio nella vita, o abbandonarsi all’abbraccio materno, ritornando nel grembo e morendo, insieme al padre, nella propria condizione virile.

Nessuno è totalmente esente dal richiamo del corpo materno, che potrebbe portarlo via con sé. Questo richiamo persiste, come musica di fondo, anche nel più potente impulso di possesso erotico della donna. Non è la donna fallica (che usa il figlio come sua protesi) a dominare la scena, ma la profondità dell’interiorità erotica femminile, che l’uomo sente da bambino nel rapporto con la madre e dalla quale si allontana progressivamente, identificandosi con il destino di suo padre.

La tela di Penelope è il velo della sposa, il sudario del suocero (Laerte) che fa del figlio di lui un uomo, uno sposo. Rappresenta l’interiorità inviolabile del piacere femminile, l’intensità che apre dall’interno il corpo alla vita, il «segreto» della donna a cui l’uomo non può avere un accesso diretto, senza perdere la sua posizione nel mondo. Con lo spazio d’attesa con cui la donna lo chiama a sé, l’uomo si identifica, perché lo coinvolge fin dal principio della sua vita, e, al tempo stesso, se ne distanzia, per poter sentirsi padrone di sé. Tra l’attesa, protetta dal velo, con cui la donna si apre, creando la possibilità della vita come esperienza vissuta, e la risposta impegnata e impegnante dell’uomo, c’è sempre una discrepanza, una pausa, che quest’ultimo mette in mezzo.

La messa in pausa della donna, nasce da un senso d’impotenza nell’uomo e crea un senso di colpa.

Entrambi i sentimenti si attivano in lui con la menopausa della sposa, quando l’apparenza, che non è realtà, di una attesa prosciugata, lo mette in crisi.