Jeff Smith è decisamente una brava persona. Forse troppo per la camarilla che sembra dominare la politica federale. Quando viene scelto per sostituire un senatore recentemente scomparso di un indefinito Stato del West, i suoi sponsor politici puntano piuttosto sull’idea che si tratti di uno «yes man» facilmente manovrabile. Ma, nel momento in cui, intorno al progetto di costruzione di una diga, le trame che hanno portato alla sua elezione emergeranno con chiarezza, Jefferson Smith si renderà conto di essere stato manipolato e cercherà conforto dialogando con la statua di Abraham Lincoln, installata (negli anni Venti del Novecento) all’interno del Memorial dedicato al sedicesimo presidente degli Stati Uniti. Da quel confronto con la figura di pietra, Jeff troverà la forza per ribellarsi a chi vorrebbe controllarlo e per svolgere fino in fondo il suo compito di rappresentante del popolo.

IL DIALOGO nel quale James Stewart (Jeff) si rivolge alla statua dallo sguardo severo del politico del Kentucky che pose fine alla schiavitù nel Paese sconfiggendo sul campo la secessione degli Stati del Sud nel 1865 (anche se le cose si rivelarono in realtà un po’ più complicate di così), è forse il momento centrale, a un tempo lirico e drammatico, di Mr. Smith va a Washington, il film con cui nel 1939 il regista Frank Capra celebrò la straordinaria stagione del New Deal che si era appena conclusa. Come scrisse il Time all’epoca, dopo aver elogiato lo stile brillante della regia e la superba recitazione degli attori, il film «è più di tutte queste cose. Il suo vero eroe non è l’ingenuo Jeff Smith ma le cose in cui crede, incarnate nell’eroe della prima crisi della democrazia degli Stati Uniti, Abraham Lincoln».

In un Paese dalla storia recente e dove le testimonianze del passato non smettono, in modo talvolta inquietante, di parlare al presente, il fatto che un regista come Frank Capra, molto attento ai destinatari della propria arte e alla loro coscienza, scelga in una fase decisiva delle vicende nazionali – alla vigilia della Seconda guerra mondiale – di «far recitare» una statua, sembra dire molto dello spazio reale che la memoria di pietra occupa nel cuore come nell’anima della società statunitense.

È da una simile consapevolezza che muove lo storico Arnaldo Testi nel tracciare ne I fastidi della storia (il Mulino, pp. 266, euro 20) un’appassionante indagine intorno a ciò che i monumenti ci dicono dell’America, di ieri come di oggi. A risvegliare l’attenzione dello studioso, tra i più attenti e puntuali nel tracciare l’evoluzione della realtà sociale statunitense in relazione con i suoi miti fondativi e la sua complessità culturale, sono stati ovviamente i conflitti sorti negli ultimi anni intorno a statue e monumenti giudicati, e a ragione, come espressione di dominio e sfruttamento, di oppressione e violenza perpetrati nel corso del tempo nei confronti degli afroamericani come dei nativi, o degli appartenenti ad altri gruppi di minoranza, delle donne come di chi appartiene alla comunità Lgbtq. All’interesse per l’estrema attualità di tale dibattito, come al riproporsi in forme accese di un clima da «cultural wars» che però a ben guardare non abbandona il confronto pubblico locale perlomeno dagli anni Sessante, Testi affianca un racconto storico sul contesto nel quale gli stessi monumenti sono stati eretti e sulle forme assunte fin qui dalle discussioni pubbliche intorno alla loro presenza.

L’ESITO sembra riassumibile nell’immagine, necessariamente conflittuale e in costante movimento, che i giardini di pietra della memoria americana restituiscono della realtà in divenire del Paese. Il tutto, muovendo da una necessaria consapevolezza, vale a dire, sintetizza l’autore, che «i monumenti che ci sono consegnati dal passato non sono “né innocenti né neutrali”, sono oggetti controversi anche quando sono concepiti e non solo se e quando, in tempi successivi, vengono analizzati da critici culturali o contestati da attivisti politici». Perché, aggiunge Testi, si tratta di «performance presentiste, fanno finta di riguardare il passato ma parlano sempre del presente: il presente di quando entrano in scena e il presente di ogni volta in cui agganciano l’attenzione di qualcuno. Fanno finta di commemorare ma celebrano, e celebrando interpretano, evidenziano alcune cose, dando loro autorevolezza, e ne celano altre». Bizzarro risulta perciò descrivere quanti oggi si battono per la rimozione di talune di queste statue, spesso dipinti come altrettanti adepti di una non meglio identificata cancel culture, come soggetti animati dalla «volontà di voler riscrivere o cancellare la storia», quando «i monumenti stessi sono riscrittura della storia e sua cancellazione selettiva».

Tra i vari casi presi in esame nel volume acquista perciò particolare attenzione il tema dei «monumenti confederati», realizzati negli Stati meridionali del Paese dove nella seconda metà dell’Ottocento si realizzò la secessione anche, ma non soltanto, per difendere un’economia che si basava in larga parte sullo schiavismo. La prima, e senza dubbio la più drammatica crisi attraversata dall’allora giovane democrazia americana, e segno di una frattura sociale e culturale che avrebbe continuato a dividere il Paese lungo il confine del colore anche ben al di là delle frontiere tra gli Stati e tra Nord e Sud. Nella società che malgrado un presidente afroamericano ha conosciuto un’iperbole di violenza razzista e lo sviluppo di un terrorismo suprematista dai contorni sempre più inquietanti, fino all’elezione, anche in reazione al mandato di Obama, di un’icona dell’Alt-right come Trump, la presenza di quelle statue incarna una sfida ancora aperta, una lotta per l’egemonia nello spazio pubblico delle idee dell’odio e del potere dei bianchi.

IL SOUTHERN POVERTY Law Center, la maggiore organizzazione antirazzista statunitense, sorta all’inizio degli anni Settanta a Montgomery, in Alabama, sulla traccia del movimento per i diritti civili degli afroamericani, che proprio ieri ha pubblicato il proprio rapporto annuale – Year in Hate and Extremism -, indica come in totale siano ancora 2600 i simboli confederati esposti pubblicamente nel Paese. Mentre le grandi statue equestri dei generali sudisti, su tutti del comandante in capo delle forze della Confederazione, Robert E. Lee, sono da anni oggetto di campagne che ne chiedono la rimozione, o sono già state rimosse, busti, targhe, iscrizioni o monumenti minori continuano a fare bella mostra di sé non solo a Sud dell’antica linea Mason-Dixon. Sempre i ricercatori del Splc fanno sapere che attualmente 47 «simboli confederati» sono ancora in attesa di rimozione in undici Stati: Alabama, Florida, Georgia, Louisiana, North Carolina, New York, Pennsylvania, South Carolina, Tennessee, Texas, e Virginia. E ce n’è uno, da rimuovere, perfino a Porto Rico.

Che nell’America attraversata ancora una volta dalla violenza delle forze dell’ordine contro i neri, come dalla nuova predicazione d’odio pop inaugurata da Trump, la vista di simili monumenti risulti intollerabile a molti non potrà stupire. Ma, dall’indagine di Testi emerge come anche al momento della loro costruzione tali statue intendevano ribadire la legittimità, altrettanto intollerabile, di un potere edificato sulla violenza, l’oppressione, il razzismo. Non a caso, ricorda lo storico, il primo monumento al generale Lee – rimosso nel settembre del 2001 – fu inaugurato nel maggio del 1890 nel centro della ex capitale confederata di Richmond, in Virginia, al centro di una nuova area urbana che avrebbe ospitato le magioni dell’élite bianca che si era andata affermando negli anni della Ricostruzione al termine della Guerra civile.

Sarà però nei primi decenni del Novecento che la «statuemania meridionale» raggiungerà il suo apice, con oltre un migliaio di monumenti costruiti o progettati. E non si trattava ovviamente di commemorare i caduti del conflitto o di evocare romanticamente la Lost Cause sudista, come avrebbe fatto più tardi Via col vento (1939). La realizzazione di quei monumenti «coincise con il completamento della segregazione razziale negli Stati della ex Confederazione, con le Jim Crow laws, con l’espulsione degli afroamericani dalla vita pubblica, con migliaia di linciaggi». La «rivoluzione reazionaria» che aveva, anno dopo anno, in qualche modo sovvertito gli esiti della Guerra civile, stava erigendo dei monumenti alla propria vittoria, al ristabilire la supremazia dei bianchi sui neri e tutte le altre minoranze. Rimuovere oggi quei monumenti, più che un’opzione appare perciò come una necessità. Perché, come scrive Alessandro Portelli ne Il ginocchio sul collo (Donzelli, 2020), riflettendo su come la morte di George Floyd, ucciso da un agente nel 2020 a Minneapolis, interroghi l’intera «mitologia» che sta alla base dell’«invenzione americana», «la memoria non è semplicemente il deposito di un tempo passato, di un’epoca conchiusa, ma una forza attiva nel presente».