Il ministero dello sviluppo economico ha convocato un’audizione pubblica il prossimo 3 agosto sullo schema di decreto legislativo di recepimento della direttiva europea 2018/1808 sui servizi media audiovisivi (SMAV). Il termine indicato per l’invio dei contributi è il vicino 29 luglio.

Tutto bene, allora? Siamo di fronte ad una buona pratica di democrazia partecipativa o, al contrario, ad una pura messa in scena? Al gattopardismo per cui tutto cambia perché nulla cambi? L’interrogativo non è retorico, perché si tratta di un argomento apparentemente tranquillo, e tuttavia esplosivo. L’articolo 3 della legge di delegazione (l.22 aprile 2021, n.53) evoca, infatti, la modifica del testo unico sulla materia (TUSMAR, dlgs. n.177) del 2005, più volte aggiornato.

Sotto le sembianze di un articolato normativo, quel testo conteneva e tuttora contiene lo scrigno del patto con Berlusconi. Una delle carte fondamentali della cosiddetta seconda Repubblica. Il decreto fu emanato dall’ex ministro Gasparri, a suggello di una vittoria conseguita da Fininvest insieme ai suoi alleati di centrodestra e ai limiti (con qualche complicità) delle sinistre.

Il testo unico altro non era che la versione allargata delle legge n.112 del 2004, che sancì in modo definitivo gli infiniti confini dell’impero del cavaliere di Arcore, oltre ad abrogare alcune cose buone: per dirne una, la legge del 1993 che attribuiva ai presidenti delle camere il potere di scegliere il consiglio di amministrazione della Rai. Fu riconsegnato così lo scettro ai partiti. O pensiamo alla bocciatura del decoder unico previsto dalla legge n.78 del 1999, che risulterebbe oggi essenziale mentre si è costretti all’ennesimo cambio degli apparecchi domestici. E altro ancora.

L’aria che tira (è annunciato un disegno di legge del partito democratico) è di operare un mero maquillage, ritoccando l’articolo 43 sugli incroci tra televisione e telecomunicazioni, messo in mora dalla sentenza dello scorso settembre dopo il ricorso del gruppo francese Vivendi in lite giudiziaria con Mediaset sull’entità della quota consentita alle proprie azioni.

Guai a scegliere la strada pigra e regressiva di abbattere quel poco di misure antitrust che hanno resistito alle offensive delle vecchie concentrazioni. Se mai è urgente adoperarsi per disegnare un moderno sistema di diritti e di doveri, capace di accompagnare senza morti e feriti o inediti padroni del vapore la transizione dall’età analogica a quella numerica.

Già la lettura al senato della legge di delegazione ha chiesto giustamente di tener in maggior conto l’esigenza di tutelare i minori e di ostacolare l’ondata inquietante delle fake news (si pensi al tema dei vaccini). Non solo. Si evoca la necessità di rendere incisive le disposizioni sanzionatorie.

Vi è, poi, il nodo irrisolto delle emittenti locali, vittime designate del riordino delle frequenze. Pare evocarsi un piano cui mancano l’appiglio di piani precedenti, nonché le intese internazionali. Uno dei difetti antichi del nostro apparato regolatorio è, si è osservato, di non avere effettive e veloci modalità coercitive rispetto alle violazioni: sulla par condicio, sugli obblighi di produzione di opere europee, sul rispetto delle pur lasche disposizioni antitrust, sulla tutela dei consumatori.

Certamente, i tempi piuttosto affrettati con cui è stata definita la consultazione, con l’urlo di dolore di diversi operatori coinvolti che neppure conoscono il testo, non depongono a favore. Un capitolo delicato, che va al di là della tavola sinottica virtuale, riguarda il tema della formazione e delle culture digitali (media literacy), su cui l’Italia è la maglia nera d’Europa. E la Rai potrebbe riscoprire la sua essenza originale di servizio pubblico, sulla base di un contratto di servizio spesso lasciato nel cassetto.

Speriamo, dunque, che le procedure in atto non abbiano in controluce unicamente il superamento dell’infrazione europea, in cui l’Italia è incorsa avendo sforato il termine del settembre 2020. Un falso movimento? Si espliciti, dunque, la verità, che è sempre rivoluzionaria.