Pochi giorni e il percorso della manovra 2020 partirà davvero. Il primo passo, la Nota di aggiornamento al Def, deve essere mosso entro venerdì. Poi, per la metà del mese prossimo, la legge di bilancio vera e propria dovrà arrivare sui tavoli di Bruxelles. A un passo dallo start, il meno che si possa dire è che la manovra è circondata da una nebbia fittissima. La disfida, per il momento, è su merendine e bibite gassate. La tassa, bocciata senza appello sia da Luigi Di Maio che da Matteo Renzi, la nuova coppia con cui dovranno fare i conti sia l’eterno Giuseppe Conte che il successore del ministro Tria, Roberto Gualtieri, era davvero in campo. Non c’è quasi più.

«Ho solo detto che è un’ipotesi. Non è una misura definita e il cammino della manovra è lungo», mette le mani avanti da New York il premier. Di Maio, casomai le cose non fossero abbastanza chiare, però rincara: «Non si può finire col ’Ci servono i soldi, tassiamo qualcosa’. Non voglio far ricordare questo governo come quello delle tasse». Matteo Renzi concorda.

LA NOTA DOVRÀ FISSARE il deficit per il 2020, e l’anno scorso fu quella la prima linea dello scontro tra Roma e Bruxelles. Il governo italiano spera di passare dal previsto 2% al 2,2%. Non è quel 2,4% fissato un anno fa dal governo gialloverde, con tanto di grida alla «povertà cancellata». Ma non è neppure quel 2,04% imposto poi dalla Ue. I tecnici di Bruxelles già scuotono la testa. Roma spera in un fronte comune con Parigi, che intende fissare il tetto del suo deficit allo stesso livello: 2,2%. Non è un obiettivo impossibile, soprattutto agitando lo spauracchio del ritorno di Matteo Salvini. Ma neppure facile.

Il cammino della manovra, infatti, non è solo lungo. E’ anche accidentato. Il messaggio di Mario Draghi, ieri, non è stato rassicurante. Se non si vedono segnali di ripresa, come ha sottolineato il presidente uscente della Bce, significa che a marcare il passo è prima di tutto il settore manifatturiero, e in Germania più che altrove. Per un Paese come l’Italia, che esporta moltissimo proprio in Germania, non è una buona notizia. Certo, i guai della Germania e di tutta l’Eurozona dovrebbero rendere gli occhiuti sorveglianti di Bruxelles più malleabili. Ma anche su questo punto Draghi ha spento almeno in parte gli entusiasmi. Chi può, cioè chi ha un debito basso, deve certo mettere mano ai cordoni della borsa e spendere. Ma chi invece ha un debito alto, e quello italiano ha raggiunto ieri il tetto del 134,8% del Pil, deve rimanere prudentissimo, dedicarsi essenzialmente alla solita riduzione del deficit strutturale, quello al netto delle spese eccezionali, e varare presto «riforme strutturali». Prima fra tutte, per Draghi, quella del «mercato del lavoro».

SIGNIFICA CHE da Bruxelles non saranno inflessibili come sarebbero stati con Salvini ancora nel governo, ma neppure giunchi come da auspici italiani. Recuperare 10 miliardi tondi grazie alla flessibilità europea potrebbe rivelarsi un miraggio. Inoltre il semaforo verde europeo sulla possibilità di non inserire gli investimenti per l’ambiente nel conteggio del rapporto deficit/Pil, richiesta fondamentale del ministro dell’Economia Gualtieri, non è ancora arrivato. Ci sarà probabilmente, perché l’emergenza ambientale lo impone. Ma con quale e quanta libertà di movimento per l’Italia, questo è ancora tutto da definirsi e non si tratta di un particolare.

Un certo nervosismo, ancora sotto traccia, ha in effetti iniziato a diffondersi nella maggioranza. L’intervento sul cuneo fiscale ci sarà: è una bandiera a cui Di Maio non può rinunciare ed è anche ben accetto in Europa. Ma i 5 miliardi previsti inizialmente sembrano ora troppi. Gualtieri ha già chiesto di diluirlo in tre anni e non a caso ieri il ministro dello sviluppo economico Stefano Patuanelli, confermando l’intenzione di procedere, usava i tipici toni prudenti del caso. Si partirà ma senza correre.

MENO PERCORRIBILE la strada del salario minimo, altra misura di battaglia pentastellata. Con la scelta di devolvere a tutto vantaggio dei lavoratori il taglio del cuneo diventa improponibile il patto per cui, in cambio del cuneo, le aziende avrebbero accettato un costo del lavoro maggiore. Ma il vero nodo, del tutto aggrovigliato, restano le entrate. Perché su un punto Luigi Di Maio e Matteo Renzi non transigono: la manovra deve essere espansiva e senza tasse.