Svuoti Los Angeles ed è subito effetto apocalisse. Non che questa versione sia particolarmente impressionante – qui manca il contrasto vertiginoso che lo svuotamento può avere a NY o Roma o altre città ad alta densità. Los Angeles semivuota lo è anche in condizioni normali, di certo sprovvista di pedoni che non sussistono in questa metropoli costruita su scala automobilistica. L’effetto pandemia è stata una drastica riduzione del traffico: d’un tratto è possibile raggiungere ogni posto in 20 minuti (inaudito sin dagli anni 60!). Il sindaco ha dovuto fare appositi appelli perché la gente guidava all’impazzata – inebriata dall’improvvisa possibilità di lanciarsi a rotta di collo nella città dell’ingorgo perpetuo. Ora che si può finalmente arrivare in fretta però non ci sono più mete da frequentare o amici da visitare.

Detto questo LA è chiaramente privilegiata: sì, i parchi pubblici e le spiagge sono state chiuse, un paio di surfisti recidivi hanno preso la multa, ma in generale non ci sono controlli sugli spostamenti. Malgrado il numero verde per segnalare assembramenti illeciti e i controlli sugli esercizi non di prima necessità che tentano di aprire siamo ancora in regime di passeggiata libera.  E poi ci sono le macchine, moduli perfetti per l’autoisolamento, che consentono gite urbane – magari anche l’occasionale spedizione fuoriporta per ricaricarsi scrutando l’orizzonte lontano su una spiaggia remota o di una strada che solca il deserto.

Ristoranti, bar e locali sono chiusi e così quasi tutti gli uffici – ma rimangono aperte poste e banche, ferramenta, pet store a lavanderie self. Ah sì… e anche gli spacci di cannabis (per via dell’uso terapeutico) molti con la fila fuori dato che c’è stato un arrembaggio di clienti che non volevano restare sprovvisti. Finite sulla lista nera invece le armerie, malgrado la resistenza opposta, alla fine i negozi di pistole hanno dovuto chiudere.

E però un vago senso apocalittico nell’aria rimane. La città è permeata di immaginario filmico: il municipio attaccato da formiche giganti, i grattacieli presi di mira da laser alieni. LA si immedesima naturalmente nel suo ruolo. L’associazione distopica più nota è probabilmente Blade Runner ma viceversa adesso i viali deserti fanno subito Fear the Walking Dead – o evocano Charlton Heston/Omega Man che attraversa Downtown nella sua Mustang decappottabile in 1975: Occhi bianchi sul pianeta terra, a caccia di individui contagiati.

Nel mio caso ,la passeggiata mi porta lungo Western Ave – uno di quegli stradoni anonimi, a metà fra viale e tangenziale che squadrano la città. Questo in particolare, ad alta concentrazione di negozi di mobilia discount in stile «simil-italiano» e insegne in coreano, non ha mai avuto un gran passaggio pedonale ora i marciapiedi sembrano davvero semi abbandonati. Non è certo uno dei luoghi celebri o suggestivi della città, ma percorso a piedi, ho sempre trovato che offrisse piccole rivelazioni su come stesse cambiando, indizi invisibili ai conducenti che scorrono nelle corsie sulle loro auto. Come l’ostello, quello aperto improvvisamente un giorno in un vecchio edificio commerciale, senza reception ma solo una bottoniera su cui ho visto ragazzi inserire codici apparsi sulle loro app luminescenti prima di scivolare all’interno.

Da un po’ di tempo in qua c’erano anche – ubiqui – gli scooter monopattino apparsi dal nulla e proliferati come una nuova specie invasiva. Agli angoli, appoggiati ai semafori ce n’erano a dozzine, in attesa di essere rilevati anche loro col tocco magico di un telefonino che li sbloccavano e attivavano. Stavano trasformando il trasporto urbano, come alternativa alle macchine per i tragitti intermedi, e in qualche modo anche l’idea di proprietà, sostituendola con quella di mezzo condiviso. In un batter d’occhio sono scomparsi, spazzati via quando l’idea di condivisione è diventata anatema dall’oggi al domani.

Western era una strada già vagamente meta-urbana, dove flussi ed attività erano diretti da impulsi che arrivavano dalla rete – l’uber materializzato da un polpastrello passato sul vetro; la fila di gente furtivamente convocata davanti ad una nuova panineria da un post su instagram…una città avviata verso l’ibrido urbano-virtuale di un racconto di William Gibson. Oggi se possibile è ancora più straniante, post-umana, percorsa da questi nuovi abitanti dal volto nascosto. Non c’è in giro quasi nessuno, tranne quel capannello laggiù. Tutti davanti a quello strano locale. L’ingresso è sbarrato da nastro segnaletico e una vistosa scritta: «social distancing in progress». All’interno un paio di giovani mascherati armeggiano su tablet – sul muro uno schermo riporta nomi numerati in ordine di attesa. Dietro agli inservienti d si intravede un lungo corridoio che sembra quello di un ospedale – o un obitorio. Un lungo passaggio bianco e asettico su cui si affaccia una doppia fila di porte. È una «cloud kitchen» e dietro ogni porta c’è una piccola cucina che prepara le vivande che aspettano i fattorini di food delivery in attesa davanti alla porta. Il rito del ristorante «purificato» di profumi, rumori e persone era vagamente inquietante anche prima.

Ora che non ci sono più party e barbeque e cene di compleanno, riders e delivery sono l’ultimo labile tessuto connettivo che rimane. E la distopia futuribile è diventata il nostro presente.