Se la Conferenza sul clima (CoP26) di Glasgow si fosse tenuta regolarmente nel 2020, la finanza globale sarebbe stata tra i principali imputati per la crisi climatica in corso. Ma lo è ancora, nonostante l’anno di bonus concesso dalla pandemia.

Per questo motivo, attiviste e attivisti per la giustizia climatica hanno preso di mira con un’occupazione temporanea la “casa comune” della finanza italiana, Piazza Affari, dove sono anche quotati i campioni nostrani dell’industria fossile. Un bla bla bla di sottofondo – per riprendere le parole dell’attivista Greta Thunberg – fatto di impegni tardivi e inconsistenti, green bond emessi e sottoscritti che così green non sono, del mantra per cui si debba puntare sul gas per traghettare l’economia lontano dalla dipendenza dai combustibili fossili – sebbene lo sia a sua volta.

Nonostante la denuncia unanime levatasi negli ultimi anni, il supporto finanziario concesso al più inquinante dei combustibili fossili, il carbone, non è affatto diminuito: 1000 miliardi di dollari di investimenti ancora nel gennaio 2021. António Guterres, Segretario Generale delle Nazioni Unite, ha parlato di «dipendenza mortale» dal carbone, e di come la finanza globale debba fare la sua parte. Il sostegno al comparto del petrolio e del gas, responsabile del 55% delle emissioni globali di CO2 del settore energetico, non è da meno: 3.800 miliardi di dollari concessi dalle principali banche mondiali dal 2016, quando è entrato in vigore l’Accordo di Parigi, ad oggi. Tirano la fila quattro banche statunitensi: JP Morgan Chase – saldamente al primo posto negli ultimi cinque anni, Citi, Wells Fargo e Bank of America, che pesano per circa il 40% del totale.

Le cento più grandi banche del mondo detengono asset pari a circa 94 mila miliardi di dollari, un peso da cui scaturisce il potere di influenzare l’organizzazione delle nostre economie e, di conseguenza, delle nostre società. Ne sono consapevoli ma preferiscono continuare a volgere lo sguardo al passato, fatto di prestiti, sottoscrizioni e investimenti nell’industria fossile. Non si tratta però solo di crisi climatica. Nel caso di una più robusta implementazione dei principi di lotta ai cambiamenti climatici imposti dall’Accordo di Parigi, buona parte del patrimonio delle principali banche europee potrebbe subire un’enorme svalutazione.

I più importanti istituti di credito europei hanno infatti accumulato asset legati ai combustibili fossili pari a 532 miliardi di euro, pari al 95% del loro patrimonio, su cui spiccano le banche francesi BNP Paribas (80 mld) Crédit Agricole (71 mld) e Société Générale (54 mld). La trasformazione di questi asset in titoli tossici e il conseguente rischio di bancarotta costituisce una grave minaccia per la transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio e aumenta notevolmente il rischio di una nuova crisi finanziaria simile a quella dei mutui subprime.

Sarà importante osservare con attenzione le mosse dei principali istituti di credito italiani, su tutti UniCredit e Intesa Sanpaolo. La banca di Piazza Gae Aulenti ha intrapreso un importante percorso di sostenibilità, a partire dagli impegni sul carbone. Tuttavia, nel solo 2020 ha stanziato 5 miliardi di euro a alle principali società impegnate nell’esplorazione e nella produzione di petrolio e gas proveniente da nuovi giacimenti, soprattutto Eni, Total e Repsol.

Il gruppo torinese vanta il triste primato di banca più fossile d’Italia, con un’esposizione al settore di 44,8 miliardi di euro tra il 2016 e il 2020, che hanno permesso lo sfruttamento delle risorse naturali nel Permian Basin statunitense – bomba climatica dei giorni nostri – e dell’Artico, nonostante si definisca come banca sostenibile e al servizio dei territori. Senza contare i suoi legami con la finanza pubblica nella veste di Sace, agenzia di credito all’esportazione che tutela dai rischi proprio i gruppi finanziari o l’industria fossile italiana.