Si racconta che quando nel 1515 papa Leone X ricevette come dedicatario la copia a stampa della Chrysopoeia – l’opera in cui, come dice il titolo, l’umanista riminese Giovanni Aurelio Augurello descriveva la ricetta per fabbricare l’oro – ricompensò l’autore con una borsa vuota: avrebbe potuto riempirla se fosse riuscito a produrlo. Questo atteggiamento un po’ snob verso i libri che venivano loro dedicati era un vizio di famiglia, se la famiglia era quella dei Medici. Anche Machiavelli infatti si lamentò che il nipote di Leone X – Lorenzo de’ Medici il giovane, dedicatario del Principe – non degnasse neppure di uno sguardo il suo libro, non avendo occhi che per una muta di cani da caccia che gli era stata regalata nello stesso momento.
Entrambi gli aneddoti non vanno presi troppo sul serio. È vero che il Principe fu, lì per lì, un mezzo fallimento (se paragonato alla sua straordinaria fama postuma), ma ebbe fin da subito una cerchia di lettori devoti e appassionati. Lo stesso vale per i testi raccolti, tradotti in inglese e introdotti da Matteo Soranzo in: Giovanni Aurelio Augurello (1441-1524) and Renaissance Alchemy A Critical Edition of Chrysopoeia and Other Alchemical Poems, with an Introduction, English Translation and Commentary (Brill, Leiden-Boston, pp. XXII-337, euro 115,00). Soprattutto per il più importante fra questi: la Chrysopoeia appunto, che forse non spinse, come si è creduto per molto tempo, Leone X ad allentare le severe punizioni contro gli alchimisti (a cui teoricamente doveva essere avverso non solo come pontefice ma anche come signore temporale, data la frequente sovrapposizione tra la figura dell’alchimista e quella del falsificatore di monete), ma che certamente lo indusse a beneficarne l’autore con un posto da canonico della cattedrale di Treviso. Era quello che serviva ad Augurello, che aveva passato la sua vita fino a quel momento a cercare protezioni che gli garantissero una certa stabilità economica. Cosa apparentemente strana per uno che si vantava di aver trovato la ricetta per fabbricare l’oro, ma tant’è.
Conosciamo poco di lui. I tentativi, fatti da Soranzo sulla scia di altri studi, di riportare all’influenza di Augurello l’allegoria della castità di Lorenzo Lotto e di identificare proprio nell’autore della Chrysopoeia il ritratto, sempre di Lotto, di giovane vestito di rosso ora conservato al Kunsthistorisches Museum di Vienna, sono proposti su basi suggestive ma ancora fragili. Sappiamo che era nato a Rimini, probabilmente nel 1441 ma di certo troppo tardi per vedere la sua città essere un centro dell’umanesimo italiano. Quei tempi – incarnati nella geniale costruzione del Tempio Malatestiano – erano tramontati. Come altri giovani umanisti in cerca di fortuna, cominciò così a gravitare verso i domini di Venezia: nella Dominante, dove Bernardo Bembo gli affidò l’educazione del figlio Pietro; a Treviso, dove godette della protezione del nunzio pontificio Niccolò Franco; e infine soprattutto a Padova.
Dentro e fuori dalle mura dell’Università, Augurello vi conobbe due campi del sapere che avrebbero segnato per sempre la sua vita: da un lato la letteratura umanistica, che a Padova ebbe caratteristiche diverse da quelle di altre città italiane, prima fra tutte Firenze (dove pure si sarebbe recato di lì a poco, conoscendo Marsilio Ficino, il filosofo che forse più di tutti lo influenzò e a cui dedicò un carme alchemico tradotto in questo volume alle pp. 102-5). Oltre al recupero dei manoscritti degli antichi (vi aveva trascorso gli ultimi anni della sua vita Petrarca), a Padova gli ambienti umanistici si caratterizzavano infatti per una grande attenzione al lato materiale, accanto a quello testuale, dell’eredità degli antichi. Basti pensare alle ricerche antiquarie di Mantegna e dei suoi allievi e alla loro importanza per il recupero dei modelli antichi nella pittura. Dall’altro lato a Padova c’era anche modo di familiarizzarsi con materie per certi versi contrarie alle humanae litterae – e che Petrarca stesso avversò in prima persona: la medicina, l’astrologia e la filosofia naturale.
Gli anni in cui visse Augurello furono forse il momento storico in cui si consumò una volta per tutte quel divorzio tra cultura scientifica e cultura umanistica (ma loro avrebbero detto fra arti del trivio e arti del quadrivio) le cui tristi conseguenze abbiamo ancora oggi sotto gli occhi. Uomini come lui provarono, a modo loro e in maniera certo contraddittoria, a tenerle assieme. In questo non fu originale (ma l’originalità non era una virtù per un buon umanista). Gli aveva infatti aperto la strada, sempre a Padova, Ermolao Barbaro, che aveva messo gli strumenti filologici elaborati dagli umanisti per le belle lettere al servizio di testi di carattere medico e scientifico, come il De materia medica di Dioscoride e la Naturalis historia di Plinio il Vecchio.
Nemmeno le opere alchemiche di Augurello sono particolarmente originali, viste coi nostri occhi: un posto importante vi ricoprono i testi fondamentali dell’alchimia tardo-medievale: da Alberto Magno all’alchimista persiano Abu Musa Jabir ibn Hayyan al-Azdi (noto in Occidente col nome di Geber, uno di quegli «experti Arabes» lodati dal verso 165 della Chrysopoeia); da Raimondo Lullo a Giovanni di Rupescissa. Forse fu proprio questo suo carattere compilativo a garantire alla Chrysopoeia una certa fortuna anche nei secoli a venire.
Eppure, Augurello si vantò (ma anche questo era un topos già usato innumerevoli volte prima di lui) di aver percorso per primo una via interamente nuova. Effettivamente spiegare in esametri latini «num quisve modus» («se e in che modo», come dicono i primi versi della Chrysopoeia) gli uomini siano arrivati a fabbricare l’oro era qualcosa che non era mai stato tentato prima, anche se naturalmente l’opera si inseriva nel genere letterario, riconoscibile e influente, della poesia didascalica latina, propria di autori come il Virgilio delle Georgiche e Lucrezio, e rilanciata nel Quattrocento dagli Astronomica di Basinio da Parma.
Un altro punto in cui nelle sue opere pratica alchemica e letteratura umanistica si intrecciano in maniera creativa è quando Augurello interpreta alla luce della simbologia alchemica alcuni miti antichi, come il vello d’oro, su cui scrisse il Vellus aureum, dedicato al patrizio veneziano Vincenzo Quirini. La ricerca del vello d’oro da parte degli argonauti altro non era per lui che una metafora, dietro cui gli autori antichi avevano celato una verità più profonda: l’ossessione per la ricerca dell’oro, che – avrebbe detto, secoli dopo, Jung – era poi l’ossessione per la ricerca di se stessi. Ossessione, si è detto. Se guardiamo alle date, sembra proprio la parola giusta: Augurello morì nel 1524; l’anno dopo un altro uomo che aveva trascorso la sua giovinezza a Venezia, Giovanni Caboto, si inoltrò all’interno del Rio de la Plata e, sui confini dell’attuale Bolivia, si imbattè in una città costruita completamente in oro. Era nato un nuovo mito, quello dell’Eldorado, ma questa volta la borsa del papa non sarebbe rimasta vuota a lungo.