La più grande sconfitta della storia del parlamento più antico. A quarantacinque giorni dalla data fatidica, quel 29 marzo che si avvicina inesorabile, la sentenza per Theresa May, il suo governo e tutta la Gran Bretagna è arrivata. Ed è pollice verso. Ieri si votava sull’accordo di ritiro dall’Ue: la Brexit “leggermente”, di May alternativa centrista alla Brexit liscia (remain/secondo referendum) e a quella gassata (leave), Westminster non l’ha bevuta. Sconfitto per 230 voti (432 a 202), il governo May è allo sbando. Jeremy Corbyn ha finalmente presentato la sua mozione di sfiducia, si vota oggi alle sette di sera.
La questione per May non era vincere ma perdere in modo sufficientemente lieve da permettere un cosiddetto “piano B”: tornare a Bruxelles per ottenere qualcosa in più per poi riprovarci in parlamento. Ma le concessioni che Theresa May era riuscita a strappare all’Europa sono state accolte a Westminster tutt’al più con sufficienza se non con dileggio.
Il voto “significativo” di ieri è stato l’appuntamento più importante dal 26 giugno del 2016, quando il 52% contro il 48% del Paese votò l’uscita dall’Ue. Da allora è stato un correre sul posto, in una situazione di sostanziale paralisi che diventava sempre più vischiosa man mano che il tempo passava. May, che doveva unire il Paese dopo la frattura del referendum, lo ha invece portato alla vigilia del fatale appuntamento più diviso che mai, riflettendo la divisione interna del partito conservatore. Aveva concluso la giornata di lunedì con un appello disperato ai suoi backbenchers, i colleghi di partito senza incarichi di governo, mentre i capigruppo si adoperavano febbrilmente per scongiurare la sconfitta annunciata. Tutto inutile: il suo governo è arrivato all’appuntamento politicamente sfilacciato, con un’emorragia di dimissioni fra cui ben tre ex ministri per Brexit. Il suo partito è ormai dilaniato da questa faida interna fra eurofili ed euroscettici che si è ripercossa su tutto il Paese.
Un esito, si diceva, addirittura peggiore delle previsioni, già abbondantemente negative dall’inizio. La madre di tutte le sconfitte poneva essenzialmente un problema: quanto dura sarebbe stata. Quello era il criterio di valutazione secondo cui misurare le possibilità da percorrere in seguito. Ed è stata assai peggiore di quella di Ramsay MacDonald (il primo Primo ministro laburista della storia) nel 1924, alla quale bisogna risalire per trovare un governo battuto altrettanto malamente (fu sconfitto per 166 voti).