La collezionista che disegnò la scena contemporanea
Documentari Nelle sale italiane dal 14 marzo «Peggy Guggenheim: Art Addict» di Lisa Immordino Vreeland. La vita, le passioni e soprattutto il coraggio di collezionare l'arte del futuro
Documentari Nelle sale italiane dal 14 marzo «Peggy Guggenheim: Art Addict» di Lisa Immordino Vreeland. La vita, le passioni e soprattutto il coraggio di collezionare l'arte del futuro
Una lupa solitaria. Si definisce così Peggy Guggenheim, a dispetto della sua vita vorace, impigliata nei vortici della modernità, soprattutto artistici. E non si stenta a crederle, ascoltando la sua voce gracchiante, un po’ smarrita, fuoriuscire da alcuni nastri finiti in una scatola di libri in cantina e creduti perduti per anni. È l’ultima registrazione di un’intervista-fiume con Jacqueline Bogard Weld, la biografa che ha dato accesso ai suoi materiali alla regista Lisa Immordino Vreeland per il documentario Peggy Guggenheim: Art Addict. Due estati intere (correvano gli anni 1978 e 1979) di domande e risposte, spesso sorprendenti, sono diventate ora un film (nelle sale italiane dal 14 marzo, distribuisce Feltrinelli Real Cinema e Wanted), costellato di sequenze d’archivio in cui rivivono tutti i grandi delle avanguardie storiche. Ridono, fumano, scolpiscono, giocano a diventare maestri imprescindibili sotto l’occhio vigile di Peggy. Eppure, «lei stessa fu la sua più grande creazione», chiosa un dealer come Larry Gagosian.
Circondata dalle menti più affascinanti del Novecento – seduta fra i surrealisti, faccia a faccia con il suo consulente Duchamp, nello studio di Giacometti, con cui conversava amabilmente guardando divertita i suoi capelli arruffati, a letto per quattro giorni consecutivi con Samuel Beckett (uomo sagace come nessuno, dirà poi), sedotta dall’energia primigenia di Brancusi, votata all’accudimento impossibile della creatività di Pollock che dotò di una fattoria e uno stipendio mensile, Peggy negli spezzoni che la riprendono mantiene sempre dipinto sulla faccia un certo stupore di bambina, condito con molta malinconia. Ed è proprio la sua faccia buffa, con il naso a patata, che una rinoplastica rimasta a metà peggiorò considerevolmente, a scandire come un refrain la storia che narra Vreeland. Che è anche la storia di un pezzo di secolo scorso, quando tra Parigi Londra e New York, Peggy mise su una delle più importanti collezioni del mondo per un totale di 40mila dollari, credendo in artisti che suo zio Solomon disdegnava (non volle acquistare un Kandinsky e derise la passione folle della nipote per quella «roba kitsch»). Ma lei non si arrese: raccolse furiosamente opere che neanche il Louvre, durante la guerra, volle salvare considerandole indegne. Comprò un quadro al giorno in preda a un’ossessione, aiutò i migliori, salpò per l’America, direzione New York e spedì quei tesori sotto la dicitura «utensili di casa».
Una volta arrivata, aprì una galleria come non se n’erano mai viste: The Art of This Century Gallery che fece disegnare da Frederick Kiesler in modo che la visita fosse immersiva, le opere tattili, il percorso emotivo. Insieme a lei, fuggirono dal nazismo anche Breton, Masson e il futuro marito, Max Ernst. Che, lo dice Peggy senza remore nell’intervista, non l’amò mai e più che altro la sfruttò. Amori infelici, i suoi. Laurence Vail da cui ebbe due figli – la tormentata Pegeen, artista che finirà suicida a 42 anni, e il maschio Sindbad – era capace di calpestarla e passare sul suo corpo almeno quattro volte. E poi ci fu l’adorato scrittore John Holms che invece morì giovanissimo per una banale operazione al polso.
In mezzo, moltissimi amanti, ma soprattutto amicizie intellettuali eccentriche con le quali reinventerà la sua vita, superando l’ombra della morte: il padre sul Titanic, le sorelle – una di parto e una suicida con un volo giù dal cornicione di un hotel insieme ai suoi bambini -, Pegeen stessa.
«Mentre giravo il documentario, la mia percezione del personaggio è cambiata in maniera radicale – dice Lisa Immordino Vreeland – Non ero più sicura che mi piacesse ancora: avevo sperato in una personalità più solare… Alla fine, mi sono sentita quasi in soggezione, più di quanto potessi immaginare. Coraggio è comunque la parola che la rappresenta. Sia Diana Vreeland (l’altro biopic della regista, ndr) che Peggy Guggenheim cercavano uno scopo nelle loro vite e sono riuscite a reinventarsi completamente. Sono entrambe delle icone, hanno svolto un ruolo importante nella nostra storia culturale. Tutte e due, poi, hanno agito in un momento in cui era difficile per le donne fare quelle scelte così particolari».
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