Una lupa solitaria. Si definisce così Peggy Guggenheim, a dispetto della sua vita vorace, impigliata nei vortici della modernità, soprattutto artistici. E non si stenta a crederle, ascoltando la sua voce gracchiante, un po’ smarrita, fuoriuscire da alcuni nastri finiti in una scatola di libri in cantina e creduti perduti per anni. È l’ultima registrazione di un’intervista-fiume con Jacqueline Bogard Weld, la biografa che ha dato accesso ai suoi materiali alla regista Lisa Immordino Vreeland per il documentario Peggy Guggenheim: Art Addict. Due estati intere (correvano gli anni 1978 e 1979) di domande e risposte, spesso sorprendenti, sono diventate ora un film (nelle sale italiane dal 14 marzo, distribuisce Feltrinelli Real Cinema e Wanted), costellato di sequenze d’archivio in cui rivivono tutti i grandi delle avanguardie storiche. Ridono, fumano, scolpiscono, giocano a diventare maestri imprescindibili sotto l’occhio vigile di Peggy. Eppure, «lei stessa fu la sua più grande creazione», chiosa un dealer come Larry Gagosian.
Una volta arrivata, aprì una galleria come non se n’erano mai viste: The Art of This Century Gallery che fece disegnare da Frederick Kiesler in modo che la visita fosse immersiva, le opere tattili, il percorso emotivo. Insieme a lei, fuggirono dal nazismo anche Breton, Masson e il futuro marito, Max Ernst. Che, lo dice Peggy senza remore nell’intervista, non l’amò mai e più che altro la sfruttò. Amori infelici, i suoi. Laurence Vail da cui ebbe due figli – la tormentata Pegeen, artista che finirà suicida a 42 anni, e il maschio Sindbad – era capace di calpestarla e passare sul suo corpo almeno quattro volte. E poi ci fu l’adorato scrittore John Holms che invece morì giovanissimo per una banale operazione al polso.
In mezzo, moltissimi amanti, ma soprattutto amicizie intellettuali eccentriche con le quali reinventerà la sua vita, superando l’ombra della morte: il padre sul Titanic, le sorelle – una di parto e una suicida con un volo giù dal cornicione di un hotel insieme ai suoi bambini -, Pegeen stessa.
«Mentre giravo il documentario, la mia percezione del personaggio è cambiata in maniera radicale – dice Lisa Immordino Vreeland – Non ero più sicura che mi piacesse ancora: avevo sperato in una personalità più solare… Alla fine, mi sono sentita quasi in soggezione, più di quanto potessi immaginare. Coraggio è comunque la parola che la rappresenta. Sia Diana Vreeland (l’altro biopic della regista, ndr) che Peggy Guggenheim cercavano uno scopo nelle loro vite e sono riuscite a reinventarsi completamente. Sono entrambe delle icone, hanno svolto un ruolo importante nella nostra storia culturale. Tutte e due, poi, hanno agito in un momento in cui era difficile per le donne fare quelle scelte così particolari».