C’è un nuovo attore che sta entrando in scena nel Brasile di Michel Temer. A poco più di un anno dal golpe costituzionale messo a segno contro Dilma Rousseff dall’azione congiunta dei poteri legislativo, giudiziario e mediatico, ci si mettono ora anche le forze armate a infierire contro l’agonizzante democrazia brasiliana. Perché non è di sicuro una voce isolata quella del generale dell’esercito Antônio Mourão, il quale, parlando in una loggia massonica di Brasilia, ha pronunciato parole che sono deflagrate come una bomba: «O le istituzioni risolvono il problema politico, attraverso l’azione del potere giudiziario, ritirando dalla vita pubblica gli elementi coinvolti in atti illeciti – ha affermato il generale rispondendo a una domanda sull’eventualità di un intervento militare per spazzare via la corruzione dal Paese – o dovremo imporlo». Aggiungendo che l’esercito avrebbe già «pianificato ottimamente» tale intervento in caso di necessità.

Puntuali sono giunte le rassicurazioni del capo dell’esercito, il generale Eduardo Villas Bôas, che ha negato ogni possibilità di un intervento delle forze armate che non risponda strettamente ai dettami costituzionali, ma all’interno delle caserme la situazione è assai più complessa: tra i soldati e anche tra alti ufficiali dell’esercito, infatti, l’idea di Mourão raccoglie parecchi consensi. E ciò malgrado il generale, in qualità di segretario dell’economia e delle finanze dell’esercito, occupi un ruolo più burocratico che operativo: funzione a cui è stato assegnato proprio in seguito a un’altra dichiarazione controversa, quando si pronunciò contro «l’incompetenza, la cattiva amministrazione e la corruzione» del governo del Pt all’epoca dell’impeachment di Dilma.

E se sulle reti sociali la popolarità del generale è cresciuta in poche ore in maniera vertiginosa – e un recente sondaggio di Datafolha indica che i militari godono della fiducia della popolazione assai più che la classe politica (40% contro appena il 3%) -, in sua difesa è subito sceso in campo il deputato – e aspirante candidato alla presidenza del Brasile – Jair Bolsonaro (Partito social-cristiano), sostenitore del diritto di ogni fazendeiro di usare il fucile contro i senza terra e famoso per le sue posizioni razziste e omofobe, nonché per la sua appassionata dedica, durante la votazione alla Camera sulla messa in stato d’accusa di Dilma Rousseff, al colonnello torturatore della dittatura Carlos Alberto Brilhante Ustra, ex capo del Doi-Codi (l’organo di intelligence e di repressione del regime militare, da cui la stessa Rousseff è stata torturata). Il generale, ha dichiarato Bolsonaro (a cui i sondaggi attribuiscono il secondo posto nelle preferenze degli elettori, con il 18% dei voti, appena dopo Lula), «ha parlato come un qualunque brasiliano indignato contro questo stato di putrefazione della politica brasiliana. Non è altro che libertà di espressione».

E mentre in alcuni settori della popolazione cresce la voglia di un golpe militare, in altri risuona forte la denuncia di una «dittatura civile» già in atto: perché nient’altro che questo, scrive per esempio il noto teologo della liberazione Leonardo Boff, è un governo «senza il popolo e contro il popolo» come quello di Temer, con un indice di popolarità inferiore al 5%, che impone, senza alcun dialogo con la società civile, e con la complicità di un Parlamento composto al 40% da deputati e senatori accusati di corruzione, riforme del lavoro e della previdenza, privatizzazioni di beni pubblici cruciali come la Eletrobrás, leggi che calpestano i diritti dei popoli indigeni e «quell’autentico attentato alla sovranità nazionale che è l’autorizzazione alla vendita agli stranieri di terre dell’Amazzonia e il rilascio di concessioni minerarie a imprese multinazionali in una vasta area della foresta».

E non ci sono dubbi, gli fa eco Roberto Malvezzi della Commissione pastorale della Terra, che per l’élite al comando – «questa dittatura composta da 350 deputati, 60 senatori, 11 ministri del Tribunale supremo federale, alcuni organismi imprenditoriali e le famiglie proprietarie dei grandi media, in costante collegamento con i poteri economici che dominano il mondo» – la soluzione militare sarebbe «la migliore possibile».

In questo quadro, non potrebbero apparire più paradossali le dichiarazioni del golpista Temer a proposito della sua «coincidenza assoluta» con Donald Trump riguardo alla necessità di «premere» sul Venezuela a favore di una «soluzione democratica». Un impegno, quello per un «aumento della pressione» sul governo Maduro, assunto da Temer in una cena con Trump, il 18 settembre a New York, alla presenza del presidente colombiano Juan Manuel Santos, di quello panamense Juan Carlos Varela e della vice-presidente argentina Gabriela Machette (assente giustificato, a causa di un’improvvisa crisi di governo in Perù, il presidente Pedro Pablo Kuczynski). Un impegno che getta una luce ancor più sinistra sull’operazione militare congiunta, prevista a ottobre, nell’Amazzonia brasiliana, tra Usa, Brasile, Colombia e Perù, proprio a due passi dal Venezuela.