Il pronunciamento dei vertici militari a sostegno del «presidente costituzionale» Nicolás Maduro disinnesca, almeno in tempi brevi, il pericolo di un colpo di stato o di una guerra civile in Venezuela. E costituisce uno smacco per i piani di Juan Guaidó e i suoi padrini, i falchi dell’amministrazione Trump e le oligarchie latinoamericane.

Quando il giovane leader dell’opposizione si è autoproclamato presidente ad interim una delle prime misure adottate dall’Assemblea nazionale, il parlamento controllato dall’opposizione, è stata una legge per l’amnistia dei militari che fossero disposti a schierarsi contro il governo di Maduro. Anche per gli alti gradi che fino a pochi giorni prima erano definiti «corrotti» e «assassini», colpevoli di aver fatto sparare sui manifestanti.

Il piano che ha portato Guaidó a innescare la più grave crisi del Venezuela chavista prevedeva infatti una spaccatura anche nelle Forze armate, il più consistente «pilastro del regime». Lo aveva ipotizzato il New York Times alcuni mesi fa rivelando un incontro segreto fra «responsabili» dell’amministrazione –probabilmente il segretario di Stato, Mike Pompeo – con alcuni ufficiali venezuelani per sondare la possibilità concreta di una ribellione dei militari o quantomeno di una spaccatura all’interno delle Forze armate bolivariane. Nelle quali è sempre esistita una «filiera» golpista, messa però sotto controllo dall’attuale vertice guidato dal ministro della Difesa, Vladimir Padrino.

Scontri nelle piazze, appoggiati da militari ribelli, costituiscono l’ulteriore drammatizzazione della «crisi umanitaria», dipinta in tutti i colori dai mass media locali e internazionali –un’inflazione che secondo l’Fmi supera abbondantemente il 1.000.000%, un’emigrazione che sfiora i tre milioni di cittadini, lo stipendio medio ridotto a un pugno di dollari, crisi alimentare – necessaria per giustificare un intervento esterno. Una sorta di «guerra umanitaria» resa possibile dall’assunzione dei poteri presidenziali di Jair Bolsonaro in Brasile.

Il gigante sudamericano, assieme alla Colombia di fatto guidata dall’ex presidente ultrà Alvaro Uribe (nove basi statunitensi nel suo territorio), circondano – con l’ostile Guyana – il Venezuela.

La crisi del governo Maduro, pur senza un’immediata minaccia di guerra civile o di intervento esterno, resta gravissima a causa anche della polarizzazione dello schieramento internazionale che rende difficile l’unica via di uscita: quella delle trattative politiche tra governo e opposizione. Una strada immediatamente indicata mercoledì dal Messico e dall’Uruguay, due governi (progressisti) che si sono svincolati dalle decisioni ostili del Gruppo di Lima – dodici paesi latinoamericani guidati da governi di destra, più o meno radicale – i quali non hanno riconosciuto la legalità del secondo mandato presidenziale di Maduro e hanno ventilato la possibilità di rompere le relazioni con Caracas (misura finora attuata solo dal Paraguay).

All’appello per una mediazione internazionale a favore di una soluzione negoziata si sono aggiunti il Vaticano e la Russia (il Cremlino ha messo in guardia gli Usa da una nuova «disastrosa» avventura militare che «destabilizzerebbe» il subcontinente latinoamericano).

I falchi dell’amministrazione Trump sono apertamente ostili a trattative col governo Maduro. Non tutte le forze politiche presenti nell’Assemblea nazionale appoggiano la linea golpista di Guaidó. E, in caso di un processo negoziale lungo e complicato, emergerebbero di nuovo le divisioni e gli appetiti interni alla coalizione di opposizione. Solo in un drammatico scenario golpista tali gruppi devono fare una scelta secca.

In questo quadro è importantissima la linea che sceglierà l’Unione europea: nonostante l’Ue si sia schierata in maggioranza con l’opposizione, Bruxelles resta per Maduro il più serio partner per eventuali trattative di soluzione negoziata della crisi in Venezuela. Forse l’unico che possa convincerlo a mantenere aperta la porta delle trattative, accettando una redistribuzione dell’equilibrio politico interno e la rinuncia alla via della repressione.