Kriszta Szekely era venuta al Carignano qualche tempo fa, portando una sua rielaborazione da Ibsen dal titolo Nora, Natale in casa Helmer, e chi ha visto quella Casa di bambola riscritta e messa in scena da lei, usa solo superlativi, addetti ai lavori e non, per uno spettacolo applaudito e pluripremiato in tutta Europa. Lei, bellezza androgina magra e scattante (la sua vera formazione giovanile è stata l’accademia di danza classica) ha quasi 38 anni, e lavora da diverso tempo al teatro Katona Joszef, da noi il più famoso di Budapest, da dove si sono fatti conoscere maestri geniali e acclamati come Tamas Ascher e Arpad Schilling, oltre a Gabor Zambeki che ne è stato a lungo il direttore. Proprio Kriszta Szekely si pensava potesse prendere ora quella direzione, ma le cose sono improvvisamente cambiate perché il capo del governo, Orban, ha fatto approvare un provvedimento per il quale le direzioni dei teatri, come quelle di altri enti pubblici, saranno d’ora in avanti di pertinenza governativa. Decisione che ha scatenato proteste e polemiche, in Ungheria e fuori, di cui anche il manifesto ha dato conto.

Kriszta Szekely

ORA è di nuovo a Torino, dove il Teatro stabile le ha chiesto di mettere in scena , con attori italiani di alto livello, lo Zio Vanja di Cechov, di cui lei stessa ha approntato una riscrittura ambientata ai giorni nostri, abbastanza lontana dallo spleen malinconico dei personaggi cecoviani cui siamo abituati. «Vania ha 47 anni, oggi la vita si è allungata, non si sentirebbe certo prossimo alla morte. Io sono presa dal fatto che si renda drammaticamente conto che certe cose che non ha fatto ora gli saranno ancora meno possibili, e questo sentimento lo induce a trarne delle conseguenze nei confronti del mondo. Mi interessa molto quella sensazione di impotenza per le occasioni che abbiamo perso!», e mentre lo dice fa trasparire una amarezza poco lontana dalla rabbia.
E cita un verso di una poesia di Bukowski: «Non c’è cosa peggiore del troppo tardi». Però mostra apertamente uno spirito quasi da entomologa, avendo ambientato le frustrazioni e i brividi tardivi della famiglia di Zio Vanja dentro una teca di cristallo da cui raramente escono, camera di incubazione per quegli amori tardivi: «Per il pubblico è una visione claustrofobica, quasi da laboratorio, per gli attori c’è finalmente la famosa quarta parete che dal pubblico li isola e li soffoca nel loro racconto».

CI TIENE a ribadire di aver scelto di privilegiare col teatro la contemporaneità, tanto più in momenti delicati in cui la storia sembra andare indietro. Ora aveva programmato di mettere in scena Fedra di Racine, ma per tutto quello che sta precipitando in Ungheria, ha deciso di cambiare accettando di mettere in scena L’incoronazione di Poppea, con i suoi intrecci tra sentimenti e imposizioni del potere, giocati tra attori e cantanti, avendo sviluppato, nella sua riscrittura, tempi e funzione dei recitativi. «Nei teatri gestiti dalla politica sarebbe impossibile fare il teatro di cui vale la pena occuparsi. In passato siamo stati abituati, sotto altri regimi che l’Ungheria ha avuto, a veder censurare il teatro per la sua forza comunicativa, diretta, di persone che parlano a persone, mentre il cinema veniva sempre più facilmente tollerato. Per una società che non è ancora riuscita a guarire di molte ferite, è molto importante avere il teatro, soprattutto per chi vive lontano dalle grandi città».
Sembra ripetersi, nelle sue parole, il peso e l’esperienza della storia: «Dopo la caduta del comunismo e della sua burocrazia, ci abbiamo messo poco a scoprire che anche la nuova generazione al governo era corrotta; e ora ci sono molti che senza sapere nulla di teatro si sono messi in corsa per dirigerli, anche se finora magari hanno fatto solo doppiaggio per la tv», dice,ma senza lasciar trasparire nessuna intenzione di arrendersi, e senza nessun entusiasmo per i fenomeni populisti che vede diffondersi anche nell’Europa dell’Ovest. Quell’Europa in cui gli ungheresi avevano molto sperato dopo l’89.