Immediata è la sintonia che si coglie tra le pagine de L’arte sopravvivrà alle sue rovine e le opere di Anselm Kiefer. Il libro, edito ora da Feltrinelli con prefazione di Gabriele Guercio e traduzione di Deborah Borca (pp. 224, euro 25,00), raccoglie i testi delle otto lezioni che l’artista tedesco ha tenuto al Collège de France di Parigi tra il 2010 e il 2011.
Le otto dissertazioni di Kiefer sono come dei grandi ammassi di citazioni, letture, preghiere, poesie, presentati dopo lunga sedimentazione, dopo essere stati modellati per anni dal pensiero in un incessante andirivieni tra il ricordo frammentario, l’oblio e l’esperienza. Le riletture e la riemersione nel flusso dell’esistenza hanno consumato le forme e i limiti di questa mole di materiale, rendendolo permeabile a continui accrescimenti. Per esempio, se la scoperta di una poesia di Rimbaud è per Kiefer uno dei momenti più importanti dei propri anni sessanta, la sua comprensione è dilatata fino a oggi. Come per qualunque opera d’arte, è «il risultato dell’addizione delle diverse interpretazioni che ne diamo in diversi momenti della nostra vita».
Quello con la poesia è il primo corpo a corpo proposto: la forma di un componimento poetico è inevitabilmente frammentaria e arbitraria, disgrega ed estingue il reale in una ricostruzione unilaterale, che non ha alternative. Nelle possibilità dei suoi vuoti, delle sue oscurità, e nelle articolazioni dei suoi versi la poesia è, per Kiefer, una boa di salvezza e l’unica realtà intellegibile, laddove il poeta produce senso in un oceano di assurdo «trasformando le cose più brutte e più insignificanti in splendore». Tutte le parzialità, le elusioni, i ripensamenti e le incoerenze che Kiefer ribadisce come parte del pensiero soggettivo diventano l’unica sua possibilità di redenzione. Un’individualità che sente come necessaria alla creazione. Una capacità di decostruzione e ricostruzione del mondo che ha diversi, fondamentali riferimenti in scrittori e filosofi come Genet, Celan, Hugo, Nietzsche, Proust, Adorno, nei testi delle Scritture, nella letteratura tedesca. È attraverso le loro parole che Kiefer spiega il proprio pensiero. Le citazioni entrano nel testo – e nelle opere – come dei suggerimenti, delle note di richiamo, delle suggestioni che cercano di chiarire l’inspiegabile, la realtà che non si argina in una formula, nella geometria, nell’oggettività.
Eppure entrambi, l’artista-demiurgo e la sua opera, soggiacciono a leggi simili a quelle evolutive: l’opera esiste solo se dalle infinite variazioni, attraverso il caso, «nelle cave della storia», più geni, più idee, si incontrano, comunicano, si uniscono o si escludono per formare nuove combinazioni; dopo essere stata selezionata, l’esistenza dell’opera fuori dallo studio è garantita solo dalla capacità di adattamento alla contemporaneità che l’artista le ha effuso. Infine, l’arte insorgerà contro se stessa, delegittimandosi, autodistruggendosi nell’illusione di poter ripartire da zero. Se il processo arriva al termine, l’arte forse sopravvivrà alle proprie rovine.
Lezione dopo lezione, Kiefer cerca di arginare una definizione di arte traducendo il proprio bisogno espressivo, decifrando le scosse che danno inizio all’ideazione vera e propria di un’opera. Per la sua sensibilità vorace, tutto ciò che sta nell’interstizio temporale tra l’esperienza, il primo impulso creativo e la realizzazione fisica diventa parte del progetto, letture comprese. L’artista tedesco non può infatti evitare «di sovrapporre diverse idee appartenenti a epoche differenti» applicandole «come principio filosofico e sistema di produzione». Le deviazioni sono potenzialmente infinite, vaste come la cultura depositata nella memoria collettiva attraverso la scrittura, le arti figurative, i miti, la religione. Se in questo sviluppo la traccia che divide la vita dall’arte è per lui chiara, è però vero che il suo processo di trasformazione del mondo non si ferma mai, si allarga dal laboratorio al territorio circostante, fino alla costruzione di uno studio diffuso come quello di Barjac, nel Sud della Francia, o all’idea che un gesto creativo possa corrispondere a una distruzione su larga scala come un’alluvione (L’inondazione di Heidelberg, 1969), o che sia insito anche in un atto terroristico, alle demolizioni della guerra, al nazismo. Del resto, con i fantasmi mortiferi della propria germanità Kiefer ha fatto e fa i conti. Sulle montagne di detriti fisici e morali che ne hanno accompagnato l’infanzia sembra si sia costruita una coscienza complessa che cerca di traghettare, attraverso la cresima dell’arte, quelle stesse cataste di rovine, ridefinite da pretesti letterari, in una monumentale, wagneriana redenzione.
I quadri di Kiefer, visti da vicino, sono un amalgama astratto di materia, «una sorta di sistema molecolare». Allontanandosi, nell’insieme svelano l’immagine. Ma non è, dice l’artista, questione di distanze. Piuttosto un’oscillazione tra vicinanza e lontananza come tra figura e astrazione. Poi il pieno e il vuoto, l’immagine e la sua assenza, il sopra e il sotto, l’artificio umano e la natura, lo spirito e la materia… sulle tele, dentro i musei, nelle serre e tra le pareti di cemento armato e piombo dell’anfiteatro di Barjac, Kiefer cerca di riconciliare questi opposti.
Nel libro sono citati pochi artisti. Esempi positivi o negativi, contemporanei o del passato. Tra gli altri Wols, Bacon, Boltanski, Kandinskij, Mondrian, Piero Manzoni, Walter De Maria, Donald Judd, Tibor Gyenis, Daniel Buren, Lorenzo Lotto, On Kawara, Stanley Brouwn. Alcuni di loro hanno avuto un rapporto simbiotico con scrittori, come Wols con Sartre, ma Kiefer mette in guardia: c’è il rischio che esprimendosi sull’arte, spiegandone il senso con la parola, essa congeli la sua natura sovversiva e smetta di essere genuinamente «nociva». Forse per questo nelle sue lezioni, tra numerosi scrittori e filosofi, non è mai citato nessuno storico dell’arte.
Di arte ha invece scritto Genet. Nessuno, più del poeta francese, dice Kiefer, «mi ha mai trascinato verso abissi così vertiginosi» con la sua realtà rimodellata, sottoposta a elettrolisi, deformata a piacere in bouquet sontuosi, gioielli e galassie; con i suoi ribaltamenti continui della morale, le sue disumane depravazioni. Genet, 1957, nell’atelier parigino di Giacometti durante una delle pose per il proprio ritratto, ragiona così, e queste sue parole sull’arte sembrano corrispondere a tanti dei concetti sviluppati da Kiefer al Collège de France: «ogni opera d’arte, se vuole attingere la grandezza assoluta, deve, sin dal momento della sua elaborazione, ripercorrere con pazienza e applicazione infinite i millenni e raggiungere se può l’immemore notte popolata di morti che in quest’opera si riconosceranno perché questa folla innumere veda finalmente ciò che non ha potuto vedere quando era viva, ritta sulle ossa. Ci vuole dunque un’arte – non fluida, anzi molto dura –, ma dotata dello strano potere di penetrazione nei territori della morte, forse di trasudare attraverso i muri porosi del regno delle ombre». Per comunicare al popolo dei morti «la consapevolezza della solitudine di ogni essere e di ogni cosa, e che tale solitudine è la nostra gloria più certa».
Che effetto può fare L’arte sopravvivrà alle sue rovine sul pubblico italiano? Il volume Feltrinelli raccoglie le parole di Kiefer come spoglie delle sue dissertazioni, tradotte dal tedesco al francese, dal francese all’italiano. Ovviamente alla lettura mancano l’esperienza emotiva dell’ascolto diretto, le immagini proiettate in dimensioni leggibili e le visite allo studio che ne concludevano il corso, eppure risuonano ancora gli shock che hanno acceso l’intuito dell’artista. In questo senso, il libro è il bugiardino per affrontare il lavoro di uno dei più importanti artisti viventi, e può essere una delle chiavi per capire l’arte contemporanea.