La costa occidentale degli Stati Uniti è senza dubbio uno dei luoghi più rappresentati, mitizzati e semiotizzati dell’intero continente. Il mito parte, per l’America bianca, (almeno) dal 1805, l’anno in cui la spedizione di Lewis e Clark, primo contingente ufficiale a raggiungere le rive del Pacifico, arrivò all’attuale città di Astoria, nell’Oregon. «Oceano in vista! Ah! Che gioia», scrive Clark, aprendo il percorso sul quale durante il XIX secolo si incammineranno ondate di avventurieri e migranti.

Non è la California
Ma quando si pensa all’ovest, l’Oregon non è probabilmente il primo stato che viene in mente, piuttosto la California. Dalla corsa all’oro agli inni surfisti dei Beach Boys passando per l’intera produzione cinematografica hollywoodiana, lo stato si è praticamente elevato a terra promessa; in Verso Betlemme, Joan Didion lo descrive come un paese dorato «dove il mondo rinasce ogni giorno» e il luogo in cui l’immaginario americano (di nuovo grazie alla spinta continua verso ovest inscritta nell’epoca della frontiera), deve necessariamente trovare il proprio acme perché, afferma ironicamente la scrittrice, «qui, sotto quell’immenso cielo sbiancato, è dove finiamo il continente».

Magnetica e assolata, la California tende ad assorbire l’attenzione della letteratura e delle arti orientate a ovest tanto da offuscare le altre regioni del Pacifico, che, pur condividendo almeno in parte la mistica dell’occidente americano, non potrebbero essere più diverse dallo «stato d’oro». A sud del piovoso Washington, stato umbratile che evoca l’angoscia esistenziale della generazione X tramite la scena grunge di Seattle protagonista degli anni Novanta, torniamo all’altrettanto piovoso Oregon. Sebbene per nulla assente dalla cartografia culturale e letteraria americana (Lewis e Clark ne sono forse l’esempio migliore) questa terra fradicia e rigogliosa in maniera aggressiva non può rivaleggiare con la leggendaria California quanto a impatto sull’immaginario della nazione.

Non esistono canzoni in cui si sogni l’Oregon: è qui che Ken Kesey, scrittore e figura di spicco della controcultura americana degli anni Sessanta, trascorse gli anni della formazione lavorando nella fattoria dei genitori; una sorta di addomesticata epica pionieristica in miniatura. Il successo del primo romanzo, Qualcuno volò sul nido del cuculo, e le leggendarie scorribande lisergiche in compagnia dei cosiddetti Merry Pranksters (gli «allegri burloni») immortalate da Tom Wolfe in L’acid test al rinfresko elettriko, fecero di Kesey una sorta di guru dell’America alternativa, simbolo della rivolta giovanile e ponte tra la stagione della Beat Generation e quella degli hippies. Dopo la turbolenta decade psichedelica, che lo vide anche finire in prigione per possesso di stupefacenti, l’autore tornò alla fattoria di famiglia in Oregon e si ritirò a vita privata.

Tra pini e cedri
Ed è sempre in questo stato selvaggio coperto di sequoie, pini gialli e cedri rossi che Kesey decise di ambientare quella che considerava la sua opera più importante, rimasta inspiegabilmente inedita in Italia fino a oggi: A volte una bella pensata (traduzione di Sara Reggiani, Edizioni Black Coffee, pp. 841, € 24,00), un romanzo epico e torrenziale come le piogge che ne riempiono le pagine, interamente dedicato alle vite estreme dei boscaioli del Nordovest. Il passaggio di Kesey dalla cultura dell’LSD alle gesta virili di questi lavoratori inselvatichiti è in un certo senso sorprendente, ma tutta la vita e l’opera dello scrittore sono leggibili attraverso la dinamica di opposti contrastanti e complementari. All’uscita del romanzo nel 1964, l’autore e il gruppo dei Pranksters – che poteva contare sull’autista più abile della letteratura americana: Neal Cassady, ovvero il Dean Moriarty osannato da Jack Kerouac in Sulla strada – salirono a bordo di un vecchio autobus scolastico dal nome profetico di Furthur («più lontano») e si imbarcarono in un viaggio attraverso il continente alla volta di New York.

Uno dei Pranksters, Ken Babbs, parlò della traversata come di un rovesciamento dell’epopea della frontiera, la riscrittura al contrario di una nuova epica americana per mano dei suoi figli più eccentrici. Ma in A volte una bella pensata il movimento è diametralmente opposto e obbedisce fedelmente ai miti dell’Ovest e del destino manifesto: nel descrivere la genealogia degli Stamper, la famiglia protagonista, Kesey li dipinge come «una nerboruta schiatta di anime in pena che puntavano ostinatamente a ovest», spinti da una forza semi-inconscia inarrestabile nel trascinarli «di generazione in generazione, di balzo in balzo, attraverso la giovane America selvaggia». In un altro esempio dei dualismi che ne caratterizzano il pensiero, attraverso le gesta degli Stamper l’autore celebra in maniera evidente la versione più pura dello stesso sogno americano criticato dalla controcultura alla quale apparteneva, esaltando i valori dell’individualismo esasperato e dell’autosufficienza che caratterizzano il pensiero conservatore statunitense.

Faulkner, un modello
Così, sul modello dell’operazione che William Faulkner fa con il Mississippi natio (influenza fondamentale per la genesi di questo romanzo), Kesey crea quella che è senza dubbio la più grande epica del suo stato di elezione, «il romanzo del Nordovest per antonomasia», come è stato definito dalla critica. Le dicotomie incarnate dall’autore si ritrovano anche nella trama del romanzo: il cervellotico Lee, il più giovane degli Stamper, abbandona gli studi universitari sulla costa orientale per tornare a casa nella cittadina di Wakonda nel tentativo di chiudere i conti in sospeso con il fratellastro Hank, figura dalla fisicità esasperata e violenta, che non ha mai abbandonato l’Oregon e l’impresa boschiva di famiglia. Un incontro che è anche scontro tra le classiche antinomie americane di mente e corpo, mondo urbano e rurale, decadenza e autenticità, e i cui risultati non possono che essere dirompenti. È nel titolo, ripreso da una famosa ballata di Lead Belly, Goodnight Irene, che si trova suggerito come i contrasti che animano il tessuto del romanzo non possano trovare una facile, pacifica risoluzione: «A volte vivo in campagna / a volte vivo in città /a volte mi vien la bella pensata / di buttarmi nel fiume e affogar», canta il bluesman.

E l’acqua, e insieme a essa la temuta «Death by Water» della Terra Desolata di T.S. Eliot, è forse il simbolo centrale di tutta la storia, anche (e soprattutto) da un punto di vista formale. Attraverso uno stile di chiara ascendenza modernista, ispirato proprio al fiume che scorre impetuoso per tutta la durata del romanzo minacciando di ingoiare la casa degli Stamper e le loro vite precarie a ogni piena, Kesey narra questa storia di sudore operaio, vendetta e redenzione passando fluidamente dalla mente di un personaggio a quella di un altro e dalla prima alla terza persona. Le voci e i punti di vista si moltiplicano in maniera vertiginosa, complicando la narrazione senza mai intorbidirla. Ed è grazie al vigore e allo stile del racconto che Kesey eleva il mondo rorido di A volte una bella pensata a vero e proprio classico contemporaneo, regalandoci un’epica che è un turbine di gesti e pensieri violentemente affastellati l’uno sull’altro, sempre nitidi e suggestivi nella loro rude poeticità.