Un curioso destino aleggia sulla figura e la fama di Costantino Kavafis. Nato ad Alessandria d’Egitto nel 1863, ultimo di nove figli di un proprietario di una ditta di import-export a Liverpool, alla morte del padre si trasferì con la famiglia in Inghilterra. Aveva nove anni, e la sua prima formazione scolastica fu dunque anglofona, anche se la madre lo istruì alla lingua greca. Rientrato dall’Inghilterra a sedici anni, dopo un breve soggiorno a Costantinopoli, nel 1885 tornò ad Alessandria, dove visse per il resto della vita, fino alla morte, avvenuta nel 1933 nel giorno del suo settantesimo compleanno. Un non greco, dunque, che fece rari viaggi in Grecia (il primo a trentatrè anni da turista), e trascorse gli ultimi sei mesi di vita ad Atene per farsi operare di un cancro alla laringe. Un non greco che, secondo il suo più accreditato biografo, Robert Liddell, parlava il greco con una inflessione inglese e lo scriveva con qualche sgrammaticatura; che non pubblicò mai una raccolta di versi in vita, e che nondimeno divenne uno dei maggiori poeti greci contemporanei e il più tradotto di tutti i poeti del Novecento.
Scrisse un numero esiguo di poesie: il suo canone ne comprende 154 (lo stesso numero dei sonetti di Shakespeare), oltre ad alcune decine di altre rifiutate, accantonate o incompiute. Fece l’agente di Borsa, per delega del fratello Aristidis, e il giornalista, scrivendo numerosi articoli, oltre che in greco, in inglese e francese, lingue che padroneggiava alla perfezione. Ma per i suoi versi preferì quasi esclusivamente il greco, tanto che sul suo passaporto, alla voce «professione» aveva fatto scrivere «poeta». A trentatrè anni fu assunto all’ufficio Irrigazione del Ministero dei Lavori pubblici (l’Egitto era allora un protettorato britannico), dove condusse una grigia vita da travet fino alla pensione nel 1922, quasi sessantenne.
La sua fama come poeta in Grecia si diffuse tardi e lentamente, grazie a sporadiche pubblicazioni su alcune riviste, e le sue poesie all’inizio non vennero ben accolte, anzi furono spesso oggetto di scherno e dileggio da parte dei critici, e numerosi «colleghi» si divertirono a rifargli il verso, con crudeli imitazioni e caricature. Ho potuto sfogliare almeno tre volumi di imitazioni delle poesie di Kavafis, alcune davvero esilaranti. Per lunghi anni il poeta alessandrino fu ostracizzato e diffamato in ogni modo in Grecia (destino che doveva condividere con un altro gigante della letteratura neogreca, Nikos Kazantzakis), anche a causa della sua omosessualità, e, quando finalmente fu pubblicato ad Atene, i maggiori poeti del suo tempo espressero giudizi negativi o riduttivi su di lui. Ma lui non se ne diede mai per inteso: scrivendo di sé in terza persona, affermava serafico: «Kavafis è un poeta del futuro». Il tempo gli ha dato mille volte ragione.
Soltanto nel 1924, nel momento degli attacchi più virulenti contro di lui, la rivista ateniese «Nea Techni» gli dedicò un numero speciale, con un articolo del poeta Napoleon Lapachiotis che ne prendeva le difese e si scagliava contro i suoi avversari accusandoli di «animosità, invidia, parzialità fanatica, superficialità meschina, ignoranza totale e sistematica di ciò che significano l’Arte e l’artista». L’opera di Kavafis, scriveva Lapachiotis, è invece «originale, senza precedenti» e, come «una quintessenza della poesia, schiude gli orizzonti dell’Arte universale». Alle lodi di Lapachiotis si aggiunsero presto quelle di amici e ammiratori britannici, come lo scrittore E.M. Forster, il critico C.M. Bowra e il poeta W.H. Auden, che concorsero alla sua conoscenza nel mondo anglosassone, e di conseguenza alla diffusione planetaria della sua fama.
Fra parziali e integrali, in Italia esistono quasi una quarantina di traduzioni – a partire da quelle del grande Filippo Maria Pontani –, alcune, come quelle di Ceronetti e di Montale, opera di poeti che non conoscevano il neogreco.
Pochissimo note o quasi del tutto sconosciute sono, invece, le sue prose letterarie o d’occasione, gli scritti giornalistici e il prezioso epistolario. Lacuna a cui ora pone rimedio un volume pubblicato dalla Bompiani nei «Classici della Letteratura Europea» (Poesie e prose, pp. XXXV-2852, e 48,00), che propone, con ampi commenti e con i testi originali a fronte, sia tutte le poesie edite e inedite, comprese per la prima volta quelle incompiute (una scelta delle quali uscì anni fa sulla rivista «Poesia») tradotte dalla grecista palermitana Renata Lavagnini, sia quasi tutte le prose, le note critiche, i saggi inediti, le recensioni e gli scritti giovanili, oltre a un’ampia scelta dell’epistolario, tradotti da Cristiano Luciani. Delle poesie incompiute, alcune avrebbero meritato di essere incluse nel canone, ma Kavafis era troppo esigente con sé stesso, e meditava di riprenderle e rifinirle in un secondo tempo; così come faceva con le poesie «inedite», cioè rimaste tali finché non furono pubblicate nel 1968 dal filologo Ghiorgos Savvidis, e che Kavafis conservava in una cartellina con l’avvertenza in inglese: «Not for publication, but may remain here» («Da non pubblicare, ma possono rimanere qui»).
L’introduzione di Lavagnini tratteggia meglio di quanto sia stato fatto finora il percorso di vita e la maturazione poetica di Kavafis, dagli esordi parnassiani e simbolisti fino al raggiungimento di un’arte «realista» e alla piena maturità. I temi delle poesie di Kavafis sono noti: l’eros e la memoria, il tempo che tutto àltera, la presenza del passato nel nostro presente, la realtà inestricabile dall’immaginazione. E poi le scrupolose rievocazioni di eventi e personaggi di un universo remoto e sconosciuto: quello dell’ecumene ellenistica, della Siria, della Seleucia, dei Tolomei d’Egitto e di Bisanzio. Mondi lontani mille o duemila anni da noi e per lo più estranei alle culture dei paesi odierni, ma che Kavafis utilizza, con la meticolosità di uno storico di professione, come metafore della contemporaneità. Quello che sorprende nella poesia di Kavafis, e che probabilmente è alla base del suo enorme successo, è proprio la sua intempestiva attualità.
Una cospicua parte del corposo volume è dedicata, come si è detto, alle prose, scritti «da cassetto» da cui Kavafis non si sentiva particolarmente rappresentato, ma che hanno comunque un interesse non irrilevante per il poeta e il suo lavoro. Anche se un aneddoto vuole che una volta il poeta dicesse a un suo visitatore: «Kavafis non fa tre cose: non tiene conferenze, non rilascia interviste, non scrive in prosa». Le prose, comunque, illuminano meglio la figura del poeta alessandrino, una figura ambigua, deliberatamente sfuggente, dal «comportamento artistico, fatto di reticenze, di atti incompiuti o inconfessati, di tentennamenti, di fughe», che permette suo malgrado di «inquadrare una personalità insicura del suo valore, o comunque non ‘professionale’, come lo stesso Kavafis pensava dovesse essere il vero poeta». E dunque «anche le sue Note di poetica e di etica, le sue Postille, il suo carteggio, non tradiscono mai questa consolidata immagine di un individuo laconico, sfuggente e inadatto ai salotti letterari, alle conversazioni fini a sé stesse».
Almeno tre di queste prose, scrive Luciani, «sarebbero di fondamentale importanza per conoscere e avallare certe sue scelte poetiche e pose stilistiche». Sono le sue recensioni alle raccolte dei canti popolari di Nikos Politis e di Michail Michailidis, che analizza minuziosamente, e al volume di Grigòrios Papamichail Chiesa e teatro, che per il Kavafis amante della storia rappresentava una risorsa molto utile, in particolare per alcune informazioni su Antiochia, che, diceva il poeta, «dopo la grande, meravigliosa Alessandria, è il centro dell’ellenismo che stimola di più la mia fantasia». Antiochia è infatti teatro di alcune sue memorabili poesie.
Di particolare interesse anche lo scritto Genealogia, che consente di ricostruire con precisione la composizione e le vicende della sua famiglia, originaria di Costantinopoli, ma che cominciò ad abbandonarla fin dagli inizi del XIX secolo per trasferirsi ad Alessandria, dove i Kavafis furono tra i fondatori della comunità greca locale. Altri scritti, articoli, recensioni e saggi del volume danno conto dei multiformi interessi del poeta alessandrino. Un articolo sui «disumani amici degli animali» ricorda come alcuni dei più feroci personaggi storici elargissero agli animali i sentimenti di tenerezza che negavano agli esseri umani (e non conosceva l’amore di Hitler per il suo pastore tedesco Blondie). Tre articoli in inglese pubblicati su riviste peroravano con accenti accorati la causa, all’epoca di grande attualità in Europa, della restituzione dei marmi del Partenone («i più bei gioielli dell’Attica») trafugati da Lord Elgin, che gli inglesi affermavano essere stati acquistati dal nobile inglese per 14.000 sterline. «Bell’affare!» commenta sarcastico Kavafis.