In un Paese, come gli Stati Uniti, in cui la legislazione sulla privacy è eccezionalmente lasca, la letteratura delle origini insiste sulla sottrazione di sé al consesso umano perlomeno in due casi notissimi: Thoreau e Hawthorne. La disobbedienza civile e l’esilio nella natura del primo, e due racconti del secondo, Wakefield e Il velo nero del pastore, indicano nella solitudine il vero cuore della libertà americana – come sottolineerà più tardi Hemingway. Il pastore Hooper di Hawthorne pratica un’opzione del tutto particolare di isolamento: non la separazione dalla comunità, ma un nascondersi da essa tramite un drappo steso sul volto, che lo celerà ai fedeli fino alla fine dei suoi giorni. Un gesto che ha l’effetto, paradossale, di renderlo un ministro migliore, ma che segna una distanza incolmabile con chi lo circonda. Molte interpretazioni sono state date di questo racconto, ma è inevitabile un riferimento al significato originario del termine persona, la maschera dell’attore antico, da cui parte l’identificazione del volto con la totalità dell’individuo. Il velo di Hooper è una maschera all’ennesima potenza o, invece, disinnesca il processo?

Il racconto di Hawthorne è del 1836. Sessant’anni dopo, due degli uomini di legge più ammirati negli Usa – Samuel Warren e Louis Brandeis – scrivevano sulla «Harvard Law Review» un appello contro le macchine fotografiche portatili. Il rischio era l’invasione dei «sacri recinti della vita privata e domestica», la profezia avverata per cui «quello che si sussurra in camera caritatis sarà urlato ai quattro venti». È proprio dalla perorazione di Warren e Brandeis che parte La tua faccia ci appartiene (Orville Press, traduzione di Vittoria Parodi, pp. 387, € 26,00), primo libro della giornalista del New York Times Kashmir Hill. Già firma del Washington Post e del «New Yorker», esperta di tecnologia e del suo impatto sulla vita quotidiana, dopo l’ouverture «tematica», Hill fa precipitare il lettore in un clima da paranoia thriller degno dei film di Alan J. Pakula. È il 2019, una fonte le mette in mano un documento confidenziale di una startup, Clearview AI, che si dice in grado di dare un nome a qualsiasi volto anonimo fotografato, con una precisione del 98,6 per cento. È l’annuncio di un sogno tecnologico avverato, quello del riconoscimento facciale (pressoché) infallibile, che però non è difficile leggere, piuttosto, come un incubo.
L’enigma si infittisce quando Hill prova a mettersi sulle tracce della società, che ha sedi ufficiali fittizie e che sembra anticipare le sue mosse quando la giornalista chiede aiuto a un detective che già utilizza, nel proprio lavoro, i software di Clearview.

I vertici della startup non gradiscono le intromissioni della stampa, e Hill si sente lambita da un nuovo potere sfuggente e incontrollabile. Ma chi è Hoan Ton-That, il giovanissimo Ceo, a cui buona parte delle forze di polizia statunitensi guarda come al profeta di una nuova era di ordine e sicurezza? Un ex-modello e chitarrista, nato in Australia, un ambiguo simpatizzante di Trump e creatore ViddyHo, un sito responsabile di phishing indiscriminato, denunciato dalla comunità online; oppure un genio autodidatta, così audace da portare a termine ciò che colossi come Facebook o Google esitano a fare non per scrupolo etico, ma per timore di guerre legali o cattiva reputazione? Un po’ Citizen Kane e un po’ Sorvegliare e punire: questi i modelli, altissimi, della prima metà del libro, in cui Hill segue a capitoli alternati la (resistibile) ascesa di Ton-That e dall’altro la genealogia dell’idea di riconoscimento facciale, ma più in generale dell’utopia «biometrica», risalendo a Galton e Lombroso, e addirittura ad Aristotele. Quest’ultima è forse la parte più debole del libro, e sarebbe stato meglio lasciarla a chi si occupa, seriamente, di archeologia dei media e dei dispositivi.

Il discorso si fa invece più interessante quando si giunge alla sequenza di tentativi tecnici di realizzazione del riconoscimento (a opera di Woody Bledsoe e di Matthew Turk), e poi ai primi esperimenti pubblici: lo Snooper Bowl del 2001, in cui, a loro insaputa, gli spettatori di una partita di baseball venivano scrutati da telecamere che mettevano a confronto i volti con un database di terroristi e criminali. Pochi mesi dopo – l’evento sportivo si era svolto a gennaio – le Torri gemelle venivano abbattute, e le polemiche sull’utilizzo della nuova tecnologia erano spazzate via dal desiderio di sicurezza. (Non bisogna dimenticare come l’11 settembre sia stato uno straordinario acceleratore di processi mediatici e tecnologici, oltre che politici). Negli anni successivi i social network avevano completato il quadro rendendo disponibile una quantità incredibile di volti e informazioni fino ad allora private. Hill ci ricorda la celebre definizione di Facebook fornita da Julian Assange: «il più grande apparato spionistico mai concepito», diventato tale grazie all’adesione entusiastica dei suoi utenti, anziché alla sorveglianza, all’inganno e alla violenza delle polizie segrete novecentesche. Hoan Ton-That, in fondo, non aveva fatto altro che applicare uno strumento informatico abbastanza semplice alla messe di dati a disposizione nel web, in un’epoca in cui lo scraping delle informazioni, pur venuto a galla con lo scandalo Cambridge Analytica, diventava sempre più difficile da impedire.

Quando le due linee di racconto si riuniscono, Hill passa a esaminare i paradossi del sistema Clearview, adottato in breve tempo, e largamente, da comparti delle forze dell’ordine: l’estrazione non consensuale di parametri biometrici dalle immagini rastrellate in rete, da cui derivano arresti sbagliati, sorveglianza del dissenso, perpetuazione di pregiudizi razziali e di genere (perché sì, gli strumenti tecnologici sono forme simboliche, non immuni dai bias di chi li crea e diffonde). Anche successi nell’amministrazione della giustizia, per essere corretti, ma a quale prezzo? In Cina – racconta Hill – una telecamera montata nelle toilette impedisce agli utenti di ricevere più di due pezzi di carta igienica per faccia riconosciuta. Meglio limitarsi a questo esempio che fa sorridere, perché altri a tinte fosche, legati non soltanto a Paesi totalitari, non sono difficili da immaginare.
In questo contesto, a duecento anni di distanza dalla sua apparizione, il ministro Hooper del Velo nero ci appare ancora più perturbante e si imparenta più strettamente, nella sua negazione del volto, con il Bartleby di Melville e con il suo rifiuto dell’impianto sociale e economico. Ci ricorda quello che per Deleuze e Guattari è il destino dell’uomo – se davvero ne ha uno: «sfuggire al viso, disfare il viso e le sue viseificazioni, divenir impercettibile, divenir clandestino».