Alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso la narrativa spagnola era dominata dal realismo sociale, spesso più attento alla dimensione della denuncia che alla qualità letteraria, come testimonia una produzione narrativa di considerevole abbondanza; alcuni autori, giovani e meno giovani, preferirono tuttavia non inscriversi a questa tendenza e diedero inizio a un rinnovamento destinato a dispiegarsi per intero nei decenni successivi. Juan Benet è stato fra questi, forse il più brillante e influente: ingegnere madrileno, oltre a progettare strade, dighe e ponti per il Ministero delle Opere Pubbliche coltivò una tenace vocazione letteraria, disegnando la propria rigorosa poetica nel saggio La inspiración y el estilo, scritto quando era un esordiente con un’unica antologia di racconti al suo attivo.

Sin dagli inizi, la narrativa di Benet, scomparso a sessantasei anni nel 1993, si identificò con un territorio immaginario, una zona di deserti, boschi e montagne descritta con minuzia maniacale già nel primo romanzo, del 1968, Ritornerai a Región (Amos edizioni 2015) che inaugura uno stile di rara potenza, connotato da una sintassi labirintica e sorretto da un intrico di simboli e da un lessico fastoso. L’universo oscuro di Región, luogo mitico la cui accidentata geografia corrisponde a un destino di violenza e rovina, sembra contenere l’insieme dei personaggi e degli eventi che per Benet rappresentano la Spagna del XX secolo (compreso il trauma della guerra civile affrontato tramite metafore e allegorie), oltre a temi più universali, che pongono personaggi e lettori di fronte alla tirannia del caso, alla ominosa presenza del sacro e alla inevitabile sconfitta.

Tentativo di aderire al canone
Raramente – ha scritto il critico Ignacio Echevarría – «è dato contemplare un’opera dalla struttura altrettanto compatta e dai motivi così ricorrenti» come quella di Benet, giustamente accostato a Faulkner e a Proust e considerato uno scrittore dalla prosa ardua e complessa. Proprio per questo, nel 1980 suscitò un certo stupore l’apparizione di El aire de un crimen, pubblicato subito dopo il grandioso Saúl ante Samuel (una vera «cattedrale» letteraria, la cui stesura aveva richiesto alcuni anni) e definito dall’autore un romanzo d’azione «per così dire hammettiano», nato dopo un’amichevole sfida a produrre un testo finalmente «comprensibile». Lo stesso Benet avrebbe poi ricordato, in un articolo per la rivista «Cambio», il «tentativo di adattare il mio modo di scrivere a un canone narrativo dal quale mi ero deliberatamente allontanato nei miei romanzi precedenti; non così in alcuni racconti».

Tradotto in italiano per la prima volta da Jaime Riera Rehren e corredato dall’ottima prefazione di Elide Pittarello, L’aria di un crimine (Einaudi, pp. 232, € 19,00) sottolinea ancora oggi la riuscita e il valore di quel «tentativo» che si collega alle lontane incursioni dell’autore nel poliziesco, rintracciabili in racconti come «Una linea incompleta» (quasi una parodia di Conan Doyle) e «Obiter dictum», o in novelle come Sub rosa, e allo stesso tempo si inserisce a pieno titolo e senza cedimenti nel corpus dell’opera di Juan Benet.

Anche L’aria di un crimine si svolge a Región, in un paesetto chiamato Bocentellas e immerso in un’atmosfera di sonnolenta decadenza, dove il cadavere di uno sconosciuto viene abbandonato all’alba accanto alla fontana della piazza per essere poi conservato dentro una enorme botte di acquavite, in attesa che un magistrato decida cosa farne; a quello che con ogni evidenza è un omicidio si aggiungono poi la fuga di due reclute dal vicino forte-prigione di San Mamud, l’arrivo di un gangster azzimato i cui piedi sembrano non toccare terra e i sordidi maneggi di un riccone.

Tutto lascerebbe supporre l’inizio di una o più indagini, ma l’unico detective disponibile è il giovane capitano Medina (comandante del forte e idealista ormai avviato al disincanto), che si limita a investigare sulla sparizione delle reclute senza trovare tracce né ricevere risposte attendibili, perché dai bizzarri personaggi interrogati arrivano soltanto frasi surreali, vaneggiamenti sul passato, sentenze tra il mistico e il filosofico. Sotto la quieta superficie della vita paesana, intanto, covano inganni e corruzione, si consumano vendette e stupri feroci, hanno luogo un nuovo omicidio e perfino uno scambio di cadaveri, crimini i cui moventi «sono classici, il denaro e il sesso, ma se poi approdano alla violenza più cruda è per effetto del caso, il solo deus ex machina che Juan Benet immette nella sua narrativa», come nota Pittarello nella prefazione.

In L’aria di un crimine la scrittura di Benet si fa più accessibile, mentre i lunghi monologhi lasciano il posto ai dialoghi, le ossessioni descrittive e le divagazioni parafilosofiche vengono ridotte al minimo, il tono ironico e la parodia si accentuano fino a raggiungere il culmine nell’ultimo esilarante capitolo, e la trama, di solito nebulosa e sfuggente, risulta più definita. È indubbio, però, che l’autore evita di tradire il suo mondo narrativo e stabilisce una evidente linea di continuità tra questo e altri suoi romanzi. Come sempre, infatti, Benet adotta un finale aperto, sottolineando così che a interessargli è il processo narrativo e non la ricerca della soluzione, ragion d’essere di qualsiasi poliziesco; inoltre mette in scena alcuni personaggi già presenti nelle varie vicende ambientate a Región, creando una rete di rimandi e allusioni testuali, e com’è suo solito priva il narratore dell’onniscienza, offrendogli in cambio dubbi, incertezze, inquietudine. Non rinuncia, infine, alla presenza del numinoso e dell’inspiegabile, alla frammentarietà e al «disordine temporale», in un testo dove tutto è in movimento.

Per sapere come va a finire
Proprio come l’argentino Juan José Saer nel suo unico e anomalo romanzo giallo L’indagine (La Nuova Frontiera 2014), Benet frantuma e ricompone la classica struttura del poliziesco, articolandolo in modo nuovo e sorprendente e allontanandolo dalla scoperta della (o delle) verità, quasi a sottolineare che la natura del reale è inconoscibile e che la razionalità è destinata alla sconfitta, nonostante l’onesto capitano Medina si sforzi di combattere in suo nome.

Potrebbe non essere inutile, invece, la battaglia del lettore che vuole sapere una volta per tutte «come va a finire» e intende strappare al romanzo la soluzione dell’enigma. Basterebbe stare al gioco dell’autore, ovvero seguirne l’invito sottinteso e provocatorio: farsi detective, scoprire che nel corso del romanzo il passato e il presente sono stati giustapposti e confusi senza preavviso né spiegazioni, scovare gli indizi disseminati ovunque, riannodare i capi lasciati volutamente sciolti e conquistare un finale che, è quasi superfluo dirlo, con ogni probabilità non sarà il medesimo per tutti.