Ben consapevole di aver attizzato un rogo civile e costituzionale con la decisione di sospendere il parlamento, per Boris Johnson ormai non c’è ritorno. Ma il terreno cedevole sul quale poggia questa sua sparata diventa visibile con il passare delle ore. Ieri il premier britannico ha risposto al diluvio di critiche piovutegli addosso sostenendo che più «i nostri amici e partner europei» vedono che il parlamento britannico cerca di stoppare il no deal, e meno saranno disposti a ridiscutere i termini dell’accordo (quello nato morto con Theresa May), favorendo così proprio quel no deal che cerca disperatamente di sventare.

NON SI SA CHI GLI SUGGERISCA simili boutade, anzi forse sì: il mefistofelico Dominic Cummings, lubrificante spin doctor dei Tories ormai sul punto di sorpassare in scivolosità il suo maestro d’elezione Alastair Campbell, consumatosi nei mille tentativi di azzoppare Corbyn e finalmente afono nel mare magnum delle mille proteste anti-Brexit. Architetto della campagna per il leave, coniatore dello slogan Take back control, Cummings è un Rasputin ingestibile, amato dagli sceneggiatori e in questo momento pericoloso plenipotenziario nell’entourage di Johnson.

Il quale, com’è noto, giorni fa ha sfoderato l’esecrabile prorogation, ovvero la sospensione dei lavori delle camere dalla fine della prossima settimana fino al 14 ottobre. Un periodo insolitamente lungo, ma soprattutto a ridosso del ferale 31 ottobre, in modo da ridurre ulteriormente il tempo a disposizione per far deragliare in qualche modo il treno in corsa del no deal.

JOHNSON FINGE ANCORA di credere alla possibilità di rinegoziazione anche se, d’altro canto, ha fissato il paletto di un’uscita «costi quel che costi», pur di mantenere credibilità con la destra brexittiera che lo sostiene nel partito e quella parte – assai cospicua – di opinione pubblica britannica pro leave che, inferocita dagli indugi e dalle mediazioni di Theresa May, era finita nelle tasche di Nigel Farage. E insiste col dire che bisogna «affrettare i tempi» dell’accordo: i negoziatori britannici incontreranno la controparte europea due volte a settimana fino al prossimo importante summit europeo, il 17 ottobre, “ben” due settimane prima che la mannaia di Halloween cali per sempre sulla membership britannica dell’Ue. Poco più di una messa in scena? Boris Johnson sembra aver barattato il busto in alabastro dell’amato Churchill con l’effigie in plastica dell’invidiato Trump.

NELL’ESAUTORANDA CAMERA dei Comuni si studiano possibili contro-strategie, trasversali e variegate. Che vanno dalle azioni legali – l’ex premier filo-Ue John Major e Gina Miller, già paladina dei riccastri filo-Ue, hanno fatto causa a Johnson – a un percorso legislativo rapido e capace di recuperare la sovranità parlamentare così platealmente dissacrata dal primo ministro, traiettoria, quest’ultima, seguita dal labour Corbyn in cordata con varie altre frange di remainer. In sostanza si tratterebbe di un procedimento parlamentare già adottato nel passato recente “contro” Theresa May, che sfrutta una procedura d’emergenza per spostare dal governo al parlamento il potere di decidere i temi del dibattito e punti a costringere Johnson a concedere un voto che autorizzi o meno il no deal.

MA I NUMERI IN PARLAMENTO non sono affatto certi, è una di quelle situazioni in cui le disobbedienze alle indicazioni di voto dei capigruppo sono probabili, quando non scontate. Di sicuro nel week end continueranno a fervere gli incontri fra deputati per trovare una contro-strategia plausibile, ed è probabile che trabocchino nella notte. La prima azione legale anti-sospensione intentata in Scozia da un manipolo di deputati è però stata respinta dal tribunale, anche se il verdetto definitivo sarà martedì.

INTANTO DILAGA LA PROTESTA di piazza. Dopo le manifestazioni spontanee di mercoledì, per questo fine settimana si prevedono/sperano centinaia di migliaia di persone per le strade. Azioni a macchia di leopardo, che intendono bloccare infrastrutture e spazi pubblici. Soltanto un gruppo, Another Europe is Possible, ne ha organizzate una trentina in varie città britanniche, mentre Momentum, il movimento portabandiera del corbynismo, ha pianificato una serie di blocchi stradali e occupazioni di suolo pubblico stile Extinction Rebellion.