L’arte della digressione, unita a un certo gusto per l’indugio, entrambe tradotte in continue dilazioni della trama, che piacevolmente si spampana in diverse direzioni, tornano nell’ultimo romanzo di Javier Marías, Tomás Nevinson (traduzione di Maria Nicola, Einaudi, pp. 590, € 22,00) intitolato all’ex studente di Oxford, arruolato grazie a una manovra che lo aveva incastrato per la vita, nei servizi segreti della Corona inglese: lo avevamo conosciuto nel romanzo precedente dello scrittore spagnolo, Berta Isla, dal nome della moglie di Tomás.

Tra quelle pagine, Berta aspettava, e soprattutto dubitava, poco altro restandole da fare, visto che nulla le riusciva di venire a sapere circa le occupazioni del misterioso marito quasi sempre assente, e finalmente creduto morto.

Passati dodici anni di silenzio dall’ultima fallimentare missione, un silenzio reso assoluto dal rischio di venire intercettato, Tomás, o quel che restava di lui, si era ripresentato alla porta di Berta e dei loro figli alla cui infanzia era stato estraneo e, almeno parzialmente, era stato riaccolto, sebbene da allora vivesse in un’altra casa. Era un uomo disfatto, un agente «bruciato», ovunque fuori posto, «inabissato nei brutti ricordi».

Tre anni dopo, il giorno dell’Epifania, il suo vecchio datore di lavoro, Bertram Tupra, torna a manifestarsi. Dev’esserci un motivo importante se per incontrarlo vola a Madrid. Cinico «artista della calunnia», influente e al di sopra più o meno di tutte le autorità visibili, Tupra è al tempo stesso il peggior nemico di Nevinson, per l’esistenza cui lo ha costretto, e il suo amico più intimo, perché è l’unico a sapere tutto di lui, che si è lasciato alle spalle non solo missioni segretissime, ma una seconda moglie e una figlia, entrambe inscritte nella parentesi in cui i servizi gli avevano imposto di restare nascosto, una parentesi chiusa la quale le ha abbandonate.

Personaggio evidentemente caro a Marías, che lo aveva già introdotto in Il tuo volto domani, Tupra questa volta non agisce per il bene della Corona, bensì per rendere un favore a un agente spagnolo: sa di poter contare sul fatto che Tomás è perfettamente bilingue essendo figlio di padre inglese e di madre spagnola, immagina come al vecchio agente manchi quel senso della vita che solo una nuova missione potrebbe restituirgli, e così va a stanarlo. Ha bisogno che Tomás identifichi, fra tre possibili candidate, la donna che nel 1987 partecipò alla organizzazione di almeno due gravissimi attentati dell’Eta, e ancora sfugge alla giustizia.

Come Tomás, quella terrorista che si chiama Magdalena Orue e ora corrisponde al nome di una fra le tre donne sulla cui vita Nevinson dovrà indagare, ha una doppia appartenenza, essendo mezzo nordirlandese e mezzo spagnola: era stata un prestito dell’Ira alla organizzazione paramilitare basca, poi si era saputo di lei che da otto nove anni si era ritirata in una cittadina del nord-ovest della Spagna, dove è tutt’ora sistemata e dove Tomás dovrà andare a trovarla, per portarla davanti a un tribunale.

Fedele al suo amore per una strategia narrativa fatta di lunghi intervalli fra l’enunciazione di un fatto e la sua realizzazione, Marías elabora estese digressioni iniziali – alcune situate nel mondo della realtà storica altre nel regno della finzione – prima di approdare al lungo dialogo tra Tupra e Nevinson, in cui l’uno incalza e l’altro retrocede, l’uno accampa le ragioni della giustizia e l’altro il suo abbandono di ogni militanza, entrambi lanciandosi frecciate più o meno dolorose sul loro comune passato. Finché è necessario alla trama che Nevinson ceda. Accetterà l’incarico, vinto dall’eccitazione che già gli trasmette il suo nuovo passaggio all’ombra, e tuttavia è perfettamente consapevole della natura della sua nuova missione: forse una azione destinata a prevenire nuove stragi, più probabilmente «un castigo, o una vendetta». Sul molto che resta, o meglio su quel poco che è lecito esplicitare di quanto circonda gli eventi cruciali, interroghiamo Marías, che risponde dalla sua casa a Madrid.

Negli ultimi due romanzi, i suoi temi ricorrenti hanno subìto qualche modifica: lei insiste meno, per esempio, sulla irrealtà che ci circonda, e anche la predilezione per i condizionali controfattuali è un po’ diminuita, vale a dire che occupano meno spazio le varianti potenziali di quanto è effettivamente successo. Resta invece la questione di vivere nell’inganno, e Tomás ne è una personificazione, suo malgrado.
Non saprei se i temi dei miei romanzi siano effettivamente cambiati, ma è normale che lo siano essendo io diventato più vecchio. Certo, ora scrivo molto diversamente dai miei esordi, sono passati esattamente trent’anni da quando è uscito Un cuore così bianco. Allora come adesso quel che resta vero è che non pianifico mai le mie trame, non faccio propositi e tutto si sviluppa in un modo un po’ improvvisato. Tuttavia, anche nel mio ultimo romanzo tornano temi a me cari: penso di appartenere al tipo di romanziere che scrive libri molto simili tra loro, senza ripetermi, ovviamente. Almeno in Spagna c’è un certo pregiudizio favorevole verso l’idea dello scrittore che si reinventa una volta e poi un’altra e così via; ma a me, sia come lettore che come spettatore, piace il contrario: quando Hitchcock era ancora vivo andavo a vedere i suoi nuovi film sperando di ritrovarmi davanti al suo stesso stile e ai suoi temi prediletti, e qualcosa di simile accadeva con i film di John Ford. Anche quando leggo, trovarmi di fronte a un libro di un autore totalmente diverso dai suoi precedenti per me non è un pregio, anzi, testimonia di un fallimento.

Eppure, è difficile credere che «Tomás Nevinson» non le abbia richiesto una strategia pianificata: è un romanzo, di necessità, particolarmente consequenziale…
Eppure, anche qui ho scritto via via senza sapere bene che cosa sarebbe venuto dopo. Certo, arriva un momento, verso la fine del libro, in cui ne so un po’ di più; ma, per esempio, c’è una scena molto rilevante – non dirò quale per non anticipare nulla ai lettori potenziali del libro – in cui mancavano poche pagine a decidere come si sarebbe comportato Tomás Nevinson in quel momento cruciale, e io ancora non sapevo cosa fargli fare e cosa no. Il fatto di non avere pianificato nulla mi ha aiutato a contagiare il personaggio con la mia indecisione. Infatti, pensa e ripensa, per tutta la scena Tomás non sa che pesci prendere.

Non diciamo nulla dei fatti, però possiamo dire che lei passa continuamente, e ogni volta repentinamente, dal racconto in prima persona al racconto in terza: in questi veloci cambiamenti del punto di vista sta uno dei pregi maggiori della scena. Ha adottato questa strategia narrativa per mostrare uno sdoppiamento tra la persona che Tomás è e il ruolo che riveste?
Diciamo che l’uso della terza persona è funzionale a una sorta di mascheramento: quando Tomás si rivolge a se stesso con il nome che ha adottato per la sua missione, Centurión, questo gli consente di prendere le distanze da ciò che di ingiusto, o di lesivo, c’è in quanto sta facendo. Passare al nome da poco acquisito, uno dei tanti – peraltro – adottati da quando lavora nei servizi segreti, fa sì che possa vedersi come un altro, riuscendo magari a credere di non essere proprio lui a compiere quella azione dannosa. Come probabilmente accade a tutti gli infiltrati, è abituato a attingere alle molte identità adottate nel suo passato, e dunque può dirsi che sì, sta compiendo quella azione, ma un po’ di meno che se agisse in prima persona.

Lei tarda molto a far entrare Tomás in azione. Il romanzo comincia con una serie di lunghe digressioni, e la trama prende avvio molto lentamente, tanto che ci si chiede se lei non provi più gusto nel dilazionare l’azione che nel descriverla.
Direi che le due forme di piacere sono per me equivalenti. È vero: già la prima frase introduce una lunga digressione sul fatto che Nevinson, in ragione della educazione ricevuta, pensa si dovrebbero avere dei riguardi particolari per le donne; ma poi riepiloga le occasioni in cui la Storia ha contraddetto quei buoni propositi, dalla uccisione di Anna Bolena a quella di Giovanna d’Arco e di Maria Antonietta. Poi dalla realtà storica passa alla finzione e ricorda un film di Fritz Lang girato durante la seconda guerra, e poi ancora al Diario di un miserabile di Reck-Malleczewen e, certamente, un lettore impaziente può chiedersi dove vada a parare tutto ciò. Ora, non so se mi riesce, ma la mia aspirazione sarebbe quella di rendere abbastanza interessanti queste digressioni, una dopo l’altra di per sé, in modo da catturare l’attenzione del lettore e invitarlo a continuare. Com’è ovvio, se tutto ciò si prolungasse eccessivamente immagino che non solo un lettore impaziente ma anche uno pazientissimo si stuferebbe. Credo che questo gusto della digressione mi sia nato mentre traducevo Tristram Shandy: beh, lì davvero non si arriva mai a sapere esattamente dove cominci una nuova storia e dove si interrompa quella vecchia. Insomma, vorrei che i differimenti della azione avessero lo stesso peso della trama propriamente detta, e che il lettore gradualmente fosse messo in grado di capire come quelle dilazioni formino parte della vicenda. Anche le molte citazioni che metto nei miei romanzi non sono pensate in quanto tali, bensì come qualcosa che si incorpora nel contesto del romanzo e finisce per risultare come se venisse detto per la prima volta, perdendo il suo carattere di citazione.

Tomás torna in servizio accettando un incarico che, in realtà, è un favore richiesto a Tupra da un altro agente, in una sorta di scaricabarile. Si direbbe che lei abbia voluto togliere un po’ di nobiltà all’impresa di Tomás, e anche un po’ di necessità. Come mai questa scelta?
In un certo senso è così, è vero, ma non necessariamente. Tomás fondamentalmente accetta perché si rende conto che ormai restare fuori dai servizi segreti dopo decenni di attività vuol dire annoiarsi. Il romanzo non è una continuazione di Berta Isla, anche se il mondo è lo stesso e i personaggi pure: va letto come un libro a sé, ma chi conosce il romanzo precedente ovviamente ne gode di più. Tra quelle pagine, Tomás sopriva di essere stato ingannato, quando era molto giovane, e da allora tutta la sua vita ne era stata condizionata. Del resto, tutti viviamo l’unica vita che ci è data. Tomás ormai è abituato a una certa quota di azione, e accetta quindi l’incarico di smascherare e portare davanti alla giustizia una dei responsabili di gravi attentati, che vive nascosta da molti anni. Poi le cose andranno in modo diverso, e lui comincerà a porsi una serie di problemi di coscienza, ma a muoverlo è un ideale di giustizia.

Alla fine del romanzo precedente, Berta Isla rifletteva sulla propria irrilevanza nella vita del marito. Qui, invece, lei la riscatta da quella sua presunta insignificanza, perché Tomás si accorge in qualche modo di amarla ancora. Voleva rendere giustizia al suo personaggio?

Sì e no. C’è un passaggio in cui anche Tomás riflette su quanto insignificante è stato nella vita di Berta. Entrambi, si trovano dopo tanti anni e dopo tante assenze di lui e tante delusioni di lei, a rendersi conto del fatto che, alla fin fine, chi resta è il vecchio marito per l’una e la vecchia moglie per l’altro. Anche nella vita reale, man mano che il tempo avanza ci si ritrova a pensare chi ci resti ancora intorno fra gli amici e i familiari: le persone si perdono per strada, e non soltanto perché alcuni muoiono, ma anche perché amicizie importanti finiscono. In molti miei libri torna il tema della sostituibilità di chi se n’è andato, l’idea che altri vengono a prendere il posto di chi non c’è più; ma questo non sempre è possibile, non tutti sono sostituibili. C’è un po’ di fatalismo nel fare i conti con chi resta intorno a noi, e anche un qualche senso di conformità, che tuttavia è altro dal conformismo.

Il finale apre un dubbio sul fatto che potrebbe essere Berta a andarsene: è una scelta funzionale a alimentare il senso di indeterminatezza che lei predilige, o desiderava lasciare aperta la possibilità di un altro libro che riguardi Berta Isla?
Mah, il senso di indeterminatezza è sempre presente prima di tutto nelle nostre vite, in cui niente mai è definitivo se non la morte. Nevinson è tornato, e nella scena che lei ricorda è a cena da Berta. Finalmente riesce a recitarle i versi di Yeats che le era già capitato di associare a lei, e che finiscono così: «Quanti hanno amato la tua dolce grazia di allora e la bellezza di un vero o falso amore. Ma uno solo ha amato l’anima tua pellegrina e la tortura del tuo trascolorante volto». Berta lo accoglie con un sorriso, e gli dice che potrebbe essere lei a andarsene: è un fatto. Quanto a lasciare aperto un finale, non era mia intenzione, ma – ancora una volta – non si sa mai: quando terminai il romanzo dedicato a Berta Isla, non pensavo di scriverne un altro con gli stessi personaggi; però ricordo che mi restava una certa curiosità per Nevinson, che era tornato a Madrid così distrutto, così tremendamente affaticato, dopo tanti anni di assenza, e tuttavia era pur sempre un uomo di quarantatré, quarantaquattro anni, dunque gli restava ancora molto da vivere. Così, mi interessava indagare quel che sarebbe potuto ancora succedere a questo uomo cui era già successo di tutto, compresa la morte, almeno per quanto ne sapevano gli altri. Dunque chissà, forse potrà esserci un romanzo futuro…

«La letteratura permette di vedere le persone come sono veramente» – si legge in un passaggio del romanzo – «anche se sono persone che non esistono o che con un po’ di fortuna esisteranno per sempre, per questo non perderà mai del tutto il suo prestigio». Intendeva dire che la letteratura può dire ciò che nella realtà non viene accettato?
Pensavo piuttosto al fatto che alcuni personaggi di finzione, famosissimi, per esempio Sherlock Holmes, sono figure indelebili, di cui tutti noi abbiamo una idea abbastanza chiara. Per molte generazioni di lettori la sua è una figura intramontabile, tanto che ne sono state scritte parodie, altri autori hanno inventato seguiti dei suoi romanzi, insomma è un personaggio molto più reale di quanto non lo siano le persone veramente esistenti. Non a caso, quando Conan Doyle ha deciso di farlo morire, le proteste dei lettori, unite a quelle di sua madre, peraltro, sono state così furibonde che ha dovuto farlo resuscitare. Qualcosa di simile lo si potrebbe dire di Don Chisciotte, o di Madame Bovary, o del protagonista della Recherche, che resta una presenza così viva e indimenticabile da avere molta più forza di quanto non ne abbiano le persone reali. Queste e tante altre figure letterarie sono un patrimonio dell’umanità, appartengono all’immaginario collettivo. Per quanto mi riguarda, per esempio, quando rileggo Il Gattopardo o rivedo quel film magnifico che ne è stato tratto, ho sempre la sensazione che il principe di Salina mi aspetti. E in un certo senso è così, mi aspetta, perché il suo personaggio trascende il testo romanzesco.

Torniamo a Tomás: lei gli fa dire che per sua moglie lui è morto davvero soltanto quando è tornato, non prima. Si può rinunciare a un marito sconfitto, dice, ma non a un fantasma, «perché un fantasma non è mai completo». Questo perché viene meno la tensione a saperne di più?
In un cero senso. sì. Berta non ha mai visto suo marito morto, e finché non si vede il cadavere non si ha mai la certezza assoluta: convivere con queste figure fantasmatiche è molto difficile, è una sorta di trappola, non si riesce a prescindere dal chiedersi se quella persona tornerà. È un tema ricorrente nella letteratura, penso per esempio all’Altare dei morti di Henry James. Del resto, un fantasma non delude mai, e perciò è molto più arduo liberarsene.

Quali sono state le pagine più difficili da scrivere, in questo romanzo così complicato dalla irresolutezza di Tomás?
Direi che le pagine più difficili sono state proprio quelle relative alla scena cui accennavamo prima, e che non vorrei anticipare ai lettori, perciò non ne parleremo apertamente. Sono contraddistinte dalla indecisione di Nevinson su una scelta cruciale in un momento decisivo, e in buona parte riproducono la mia stessa incertezza su come risolvere questa scena. È una sensazione che mi è capitato di sperimentare anche in altri miei romanzi: come dicevamo, io non decido mai preventivamente cosa accadrà o come farò muovere un personaggio, salvo eccezioni, naturalmente. È ovvio, per esempio, che in Domani nella battaglia pensa a me sapevo già di far morire subito il personaggio femminile; ma di solito non va così. Bisogna pensare bene a quale destino assegnare ai personaggi, perché una volta finito il libro, quel che è scritto resterà per sempre. Non può succedere che la decisione di cosa far fare a un personaggio venga da un capriccio o da una esitazione eccessiva, insomma che si stabilisca qualcosa di definitivo senza pensarci su troppo, perché poi quel che è fatto è fatto, e tale resterà per i lettori. Sempre che dopo qualche anno quel libro venga ancora letto, perché io penso che la posterità appartenga al passato. È un po’ ridicolo – in un’epoca come questa nella quale tutto va così veloce e tutto si dimentica così rapidamente – pensare ai lettori futuri, me ne rendo conto. Naturalmente, ci sono anche tendenze contrapposte, autori dimenticati per molto tempo e riscoperti nella modernità: lo stesso Shakespeare, che oggi ci sembra imprescindibile per tutto il XIX secolo era scarsamente considerato, e fra i tanti esempi più recenti, Stefan Zweig è stato dimenticato quando non disprezzato per decenni.

Sì, anche tanti autori americani degli anni Cinquanta, e tanti scrittori latinoamericani sono stati riscoperti da piccole case editrici, che con i loro repêchage hanno avuto un ruolo fondamentale…
Infatti, anch’io ho pubblicato nella mia piccolissima casa editrice Reino de Redonda, autori dimenticati, per esempio Jorge Ibargüengoitia, uno scrittore messicano notevole…

La sua casa editrice fa capo all’isola di Redonda di cui lei è ancora il re, vero?
Sì, ma è ora che cominci a pensare a un erede. Naturalmente sarà uno scrittore: ogni tanto ci penso, ma mi succede sempre di leggere e ammirare autori che poi scopro a loro volta essere appassionati di scrittori che detesto, e allora mi dico: no, non va. Insomma, un candidato perfetto in tutti i sensi non l’ho ancora trovato, ma lo troverò, e se no mi accontenterò di uno imperfetto.