«L’Italia è un Paese ossessionato dal pisello» commenta Gustav un po’ sconsolato. E dal diffuso e atavico maschilismo di un patriarcato ancora ben saldo – introiettato nei gesti comuni da non essere neppure percepito come tale – non è indenne nemmeno il suo compagno, Luca. Davanti a una tazzina di caffè nella loro casa romana, la scoperta lo lascia perplesso: «La Merkel – chiosa Luca – mi piace, è una donna con le palle». Si dice, difatti lo dice pure lui, ma pensiamo al senso di questa frase che lì, alle «palle», riporta l’intelligenza e l’acume di una persona, nel caso una donna. E se per Luca è normale, per Gustav è segno di una visione del mondo da cui deve liberarsi.

INIZIA così il «viaggio in Italia» nel maschilismo e nelle sue diverse «declinazioni» che è al centro di Dicktatorship – Fallo e basta! il nuovo film di Luca Ragazzi e di Gustav Hofer nel quale i due autori ritrovano il dispositivo già utilizzato nei precedenti lavori – da Improvvisamente l’inverno scorso (2008) a What Is Left? (2013): una auto-finzione che li vede protagonisti tra incontri, discussioni, conflitti all’interno della coppia che diventano il pretesto per sollevare nuovi interrogativi. La cifra è quella di una serissima leggerezza, dell’ironia e dell’umorismo che mai giudica – e nemmeno cerca di proporre risposte preconfezionate – ma preferisce interrogarsi per tracciare un disegno il più ampio possibile.

«L’Italia è la patria del latin lover, e il Paese che per decenni ha idolatrato Mussolini (e la passione del Ventennio per gli obelischi è cosa nota…), e poi – per almeno altri due – Berlusconi: tutti personaggi che, in qualche modo, hanno fatto del maschilismo, del machismo o del sessismo la loro carta vincente. Nella cultura mediterranea l’uomo sembra dover necessariamente rispondere a un’ideale di virilità: ma cosa si intende davvero per virile?» scrivono i due autori nelle note sul film. Da qui, seguendo la «pista» narrativa del loro «microcosmo» – «Non posso sposare un maschilista» dice categorico Gustav – si muovono per la Penisola, Milano, Venezia, incontrano sociologi – come Michael Kimmel o Sveva Magaraggia, si confrontano con Michela Murgia e con Laura Boldrini, arrivano in Sardegna da Nicoletta Malesa, presidente del centro di ascolto degli uomini maltrattanti, parlano con l’icona del cinema porno Rocco Siffredi: ciascuno aggiunge un tassello, solleva nuovi dubbi, racconta soprattutto un Paese stretto ancora nel patriarcato. Violenza, diseguaglianza salariale, femmicidi, necessità di un «corpo del capo» pubblico forte con cui identificarsi, ieri Berlusconi, oggi Salvini (o Trump in America) nelle sue dirette Facebook.

ALCUNE coppie di amici ammettono di avere difficoltà nonostante il desiderio di affrontare in modo diverso l’essere genitori. Davanti a una scuola due ragazzini millennial dicono che se i loro figli gli chiedessero una Barbie lo vivrebbero come un fallimento (lo spettro del figlio «frocio») mentre almeno la metà degli italiani è convinta che a lavorare devono essere gli uomini. La violenza è una questione culturale, legata al potere spiega Malesa e non una «patologia». Quel potere che relega le donne professionalmente in secondo piano in ogni ambito e che impone sin dall’infanzia dei ruoli.

ALLA FINE del film sappiamo un po’ di più della nostra storia, per esempio che Elena Lucrezia Cornaro nel 1678 è stata la prima donna a laurearsi in Italia ma a lei non sono intitolate piazze né strade come invece a scrittori misogini amati dal fascismo. E sappiamo moltissimo di più sul nostro presente, poco lineare e inquietante, nel quale ogni giorno le poche conquiste non solo delle donne ma di un gender non unicamente «binario», eterosessuale ecc vengono messe continuamente in pericolo da misoginia e omofobia e tutto sembra «normale». Dicktatorship ci dice che non è così, è un gesto di resistenza e un intelligente «saggio» di formazione. Il cinema serve anche a questo.