Il viaggio di Bergoglio in Iraq ha suscitato un unanime consenso. Per il coraggio nel visitare un paese tutt’altro che pacificato e teatro di sanguinosi conflitti da decenni, e per la speranza che dove non è arrivata la politica arrivi la religione.

Certo, il valore simbolico di questa visita è enorme, non solo per i cristiani e cattolici come i caldei, ma anche per i musulmani e a questo, oltre che al dialogo interreligioso, è sicuramente servito l’incontro con l’ayatollah al Sistani.

Un incontro di alto valore, visto che il leader sciita non si concede facilmente. Che però potrebbe aver suscitato qualche malumore in Iran, dove l’incontro con Ali al Sistani potrebbe essere visto come un riconoscimento inopportuno rispetto alla guida suprema Ali Khamenei.

Comunque, il viaggio del papa è stato accuratamente preparato e non solo per motivi di sicurezza. E forse non è stato sufficientemente sottolineato l’operato del patriarca cattolico dei caldei di Babilonia, Louis Sako, e non solo nella preparazione della visita del papa. Se il benvenuto a Bergoglio è stato unanime (o quasi) lo si deve all’atteggiamento della chiesa caldea e della sua guida.

Ho conosciuto Louis Sako nel 2003 quando era un prete a Mosul, eravamo stati invitati a colazione io e un giornalista di Famiglia cristiana, fin da subito è stato una preziosa guida per addentrarci nella situazione magmatica irachena, prima dell’inizio della guerra. Anche perché la sua opera non si curava solo dei cristiani, ma era radicata nella realtà della città.

Solito a viaggi in Italia, durante il mio rapimento aveva fatto visita alla mia famiglia, accompagnato da don Renato Sacco, anche lui frequentatore dell’Iraq. Al mio ritorno in Iraq ci siamo ritrovati grazie a un ministro del governo curdo e Sako, che nel frattempo era diventato vescovo di Kirkuk, ancora una volta mi ha voluto a una tavolata di alti prelati per un pranzo tradizionale con il masguf (carpa).

Non era facile attraversare la città, divisa com’era tra zona curda, zona araba e zona mista, dove appunto si trovavano i cristiani, già perseguitati. Tra le guardie del vescovo e dei visitatori, tuttavia, c’era un clima di tolleranza già insolito a quei tempi.

E quando uno dei commensali ha dovuto assentarsi, era per partecipare a un dibattito tv con esponenti musulmani per perorare la pace. Una strada difficile, i cristiani in Iraq erano un milione e mezzo all’inizio del 2003, ora ne sono rimasti circa 300mila.

Riuscirà papa Francesco a sanare le lacerazioni tra le appartenenze etnico confessionali con le loro estreme conseguenze che hanno insanguinato l’Iraq e non solo? Forse bisognerebbe ricordare l’inizio e le cause di questa spirale di violenza che ha portato all’«etnicizzazione» del paese. Prima dell’invasione statunitense, nel 2003, un dittatore laico aveva garantito la convivenza, non c’era nessuna persecuzione dei cristiani: sunniti, sciiti e curdi vivevano insieme e si sposavano tra di loro. Tra i ministri di Saddam agli esteri vi era Tareq Aziz, cristiano caldeo.

Certo, si trattava di una dittatura e come tutte le dittature andava combattuta, ma l’invasione del paese – peraltro sulla base di fake news – non è stata e non poteva essere la soluzione. La visita di Bergoglio in Iraq e la sua versione del Patto di Abramo – sancito con la visita a Ur, dicono, patria del padre delle religioni monoteiste – se nell’immaginario sostituisce quello sottoscritto da Israele con alcuni paesi arabi è già un successo. Ma si basa su una credenza a cui si ispirano le religioni e purtroppo alla religione si ispirano anche i peggiori nemici della pace e della convivenza, come lo Stato islamico che non si è ancora rassegnato alla sconfitta.