Uno Zio Vanja come non si era mai visto quello in scena a Torino (al Carignano fino al 26, prima di partire per le repliche a Budapest) che lo Stabile ha affidato a Kriszta Szekely , nella traduzione di Tamara Török rilavorata da Emanuele Aldrovandi (forse con qualche eccesso di modernizzazione). La commedia di Cechov è ambientata oggi (c’è perfino un computer) in un contenitore di vetro trasparente, dove tutti i personaggi fanno i loro numeri claustrofobici. Le parentele sono una selva a momenti inestricabile, ma è certo che la forza con cui i personaggi affrontano quel non far niente, mentre riflettono sul niente fatto finora, fa spirare a tratti toni da tragedia. Per fortuna il cast riunisce un pugno di attori molto forti, a cominciare dal protagonista del titolo, cui Paolo Pierobon invecchiato ad arte, conferisce una laida aggressività che esprime non solo rimpianti. Il suo avversario è il marito di sua sorella defunta, Ivano Marescotti, che prende gusto a ridicolizzare giustamente quello che in Cechov era un letterato frustrato, e qui un regista che dilapida i suoi parassitari introiti in improbabili film «artistici». La sua nuova moglie, più sofferta che fatua, è Lucrezia Guidone, corteggiata e agguantata dal medico amico di famiglia Astrov (un inquieto Ivan Alovisio), mentre la deliziosa maman è Ariella Reggio. La nipote, che tira la carretta domestica assieme allo zio, è Beatrice Vecchione, che ripropone nelle parole e nella postura l’iconografia di Greta Thunberg, ma ancor più macerata. Lo spettacolo può sorprendere per l’energia insolita che esce dal testo, ma si fa vedere con piacere e intelligenza, lasciando appena qualche dubbio esorcistico.