«Attenzione a questo tempo di confinamento.

Un tempo per desiderare un mondo nuovo»

Annie Ernaux

Nei giorni del virus le case si stanno trasformando in zone di confino, un esercizio di cittadinanza per tutelare il bene comune della vita. Sono una privilegiata, ho un lavoro intellettuale e spazio che mi circonda; ho due cani con cui uscire se voglio. Ho l’amore di due bambine che mi riempiono di fantasia creativa e di impegni, anche se spesso le colgo a guardare oltre il muro: la piccola ha più bisogno di muovere quelle gambette, l’altra ha 10 anni e scrive:

«Che cos’è il colore verde? È la natura, è un colore, è un cavolfiore, è un oggetto. È il mondo anche se non lo vediamo. Non si deve distruggere e neanche bruciare o torturare».

Come sto? La mia vita prima del virus era caotica. Ora è il tempo delle piccole cose, della prossimità, del comune. Adesso sono connessa 24h al giorno a lavoro, casa, famiglia; non so se sarò brava a condividere lo spazio ristretto delle mie liberà così faticosamente conquistate alla cura con i miei affetti, ma provo a essere resiliente, un bene comune mutuato dalle donne. In questo tempo senza aggettivi sono riconoscente al mio mestiere artigiano che obbliga all’ascolto, un ibrido di giornalismo e editoria, un’anomalia che richiede attenzione per il presente, una costruzione continua delle parole per raccontarlo e una tessitura di relazioni che sostenga altri ad andare oltre. È un lavoro di cura cui lo tsunami pandemico ha sottratto, fermandola, tutta la fragile filiera.

«Mi sono laureata in lingue, ero precaria nella scuola poi il lavoro in Alitalia insieme a mio marito. – a parlare è Sara, la postina che garantisce i libri ai nostri lettori – Fino al licenziamento di entrambi nel 2008, abbiamo due figli. La separazione, e l’occasione alle Poste. Va bene così».

Sono grata agli edicolanti che restano aperti; cosa che alle librerie non è stata subito permessa, la cultura oggi è un bene primario solo per i Big Data, ma anche l’editoria ha le sue colpe: aveva già scambiato il pensiero per il prodotto.

«È una richiesta che stride ma vogliamo farla lo stesso – mi scrive Marta che ha organizzato uno studio di grafica con altre – non vogliamo issare la bandiera bianca cantata da Berchet…».

È un lavoro quello editoriale che nasce diffuso, precario. È costruire con i lego: devi rimanere vigile (in smartworkig, che non è un’opportunità ma una trappola) per sostituire il tassello quando cede. Pandemia. Corpi. Mondo. Tutto quello che abbiamo cercato di raccontare fino a ieri (siamo stati i primi a parlare di reddito di cittadinanza, era il 1997), oggi è la cura: stato sociale, scuola, sanità, riconoscimento del lavoro di riproduzione, reddito garantito.

Che cosa ci sta succedendo? Moltissime sono le donne che stanno lavorando fuori di casa per garantire i servizi essenziali negli ospedali, nella didattica, nei supermercati, nelle case.

« Io faccio un altro mestiere – racconta Monica che sta aiutando l’azienda agricola di famiglia rimasta senza ordini – ma in questi giorni aiuto mio marito nei campi, stiamo insieme e ci siamo anche divertiti».

Quanto pesa il lavoro delle donne nella formazione, quello delle sindache che devono prendere decisioni vitali sui territori, delle precarie e delle disoccupate? Sono le donne quelle impiegate prevalentemente nell’insegnamento, nella salute o nell’assistenza (78%): in Italia nel comparto medico, quello su cui ora riponiamo le nostre maggiori speranze, le donne con meno di 40 anni sono ormai circa il 50%.

«Sono stanca e preoccupata, ho finito la seconda quarantena, lavoro 12h al giorno, guarda ho la mano gonfia – mi manda la foto Sabrina, chirurga – Appena entro mi fiondo nella doccia poi mi chiudo in camera per non mettere a rischio mia figlia…dimmi tu che vita».

«È un dramma. Sto ancora bene ma è vergognoso come siamo costretti a lavorare…niente mascherine, protezioni…qualcuno di noi si è già ammalato e il picco deve ancora arrivare. – ora è Giulia a parlare, due figli, anestesista e rianimatrice – Tra l’altro non c’è neanche più sangue. Ma sono sicura che tutto questo ci cambierà. E non necessariamente in peggio».

«Ti faccio vedere il Nilo – il compound in cui vive Daniela, specializzata in cardiochirurgia, è quello di Emergency a Khartoum– ogni giorno andiamo in ospedale bardati come gli scienziati di 007. È un centro cardio pediatrico ma temo che, a breve, lo requisiranno per trasformarlo in centro Covid. Abbiamo la metà dei ventilatori del Sudan».

Quanto vale il lavoro delle straniere e di quelle la cui vita è già un’emergenza? Com’è percepito il terzo settore la cui missione è la sopravvivenza dei più deboli? Che cosa accadrà alle lavoratrici domestiche cui è delegato il lavoro familiare – non un lusso, ma una assenza del welfare – ancora in attesa del «reddito d’emergenza»?

«La mia amica è stata licenziata e sta a casa con due figli. Il marito forse avrà la cassa integrazione» racconta Mary Jane.

«Io sono senza permesso, – dice Evelyn – la signora mi ha mandata via perché ha paura, ma io non so dove andare, nessuna paga, non esisto».

Come gestiamo le assenze in questa epidemia che è anche «psichica»?

«Questa pandemia porta con sé un’emergenza psichiatrica che dovremo trattare finita l’urgenza». Alessandra è neuropsichiatra e ha una figlia che adesso vive dai nonni.

«Scusa l’ora ma ho serie difficoltà anche a rispondere a un messaggio. – scrive Francesca, pediatra pneumologa ­– Iniziano anche da noi i casi positivi, per fortuna ancora forme lievi, ma gli isolamenti e le procedure richiedono tempi infiniti che si aggiungono al già grande lavoro quotidiano. Sono terrorizzata dal contagio ma in questo momento non posso proprio restare separata dalle bambine: sono la mia ricarica quotidiana. Siate prudenti»

Che cosa succederà quando terminerà la quarantena? Torneremo alla normalità sapendo che è lei il problema? Le cose sono all’improvviso semplici e crude: crisi del lavoro (2,5 mln di domande solo per i bonus), della formazione (8,5 mln di bambini e studenti, con i loro insegnanti, impreparati alla DaD), della cura che oggi è crisi sanitaria strutturale (ora nel mondo 1.093.000 casi confermati, 58.600 morti); dell’economia che è speculazione defiscalizzata; dell’ambiente (allevamenti intensivi, estrattivismo, inquinamento).

Le donne pur non cedendo al mito della guerra rimangono i soggetti a maggior rischio di povertà e di violenza con un reddito globale inferiore del 23% a quello degli uomini; e sappiamo che più sono i figli, maggiore è la diseguaglianza economica domestica (nel solo 2016 in Italia quasi 25 mila neomamme hanno lasciato il lavoro). L’erosione delle infrastrutture sociali ha riportato il peso dei servizi prevalentemente sulle donne, costrette a supplirvi con la cura delle persone, delle relazioni, dell’ambiente: lavoriamo gratis circa il 15% dell’anno, per un valore di 482 miliardi di dollari.

Credo che questa ennesima crisi virale, che oggi colpisce direttamente la salute e rende vitale il lavoro di cura, stia portando a un altro picco: il difficile confine tra uguaglianza e differenza. La vocazione della nostra specie all’estinzione, accelerata dal suprematismo estrattivo e dalla sciatteria verso l’ambiente che la ospita, non appartiene alle donne che nel mondo sono ospiti più che padrone. E su questi numeri possiamo a pieno titolo sostenere che la prosperità economica mondiale si sia a lungo fondata sul contributo enorme delle donne che somma 16,4 miliardi di ore. Come annota Chomsky, non c’è profitto nel prevenire una catastrofe. Almeno così è stato fino a ieri.

Nessuna narrazione, però, ci ha preparati a questa crisi che, subordinando la salute di tutti a quella di ciascuno, disvela le verità nascoste, neppure troppo bene, dal neoliberismo: un vertiginoso cambio di passo da accompagnare con parole che dicano ciò che va detto, e cioè che neppure lo sfruttamento dell’incessante, enorme, lavoro di riproduzione e cura basterà a tenere ancora insieme le nostre società.

È un virus sapiente si è scritto.  Anche la parola delle donne lo è nel costruire nuove narrative. Nominare concetti come: paura, corpi, sopravvivenza, amore, risorse, reti, condivisione, potrebbe contribuire a riportare le nostre minacciate esistenze al centro di una politica del comune più sostenibile per tutte e tutti.

In questa tossica primavera in cui gli spazi pubblici si confondono con quelli privati, nel mio piccolo laboratorio editoriale non posso che fissare il presente, ma per costruire una storia devo incontrarmi con frammenti di altri pensieri. Possiamo vedere un futuro solo affacciandoci alla finestra?

Parlandoci (scrivendoci) riempiamo l’attesa di essere libere di toccarci di nuovo, e vedremo che forma prenderà. È la vita, non la salute, il bene comune mondiale. E questo ci riporta, inevitabilmente, alla cura.

Il lockdown-Italia è iniziato l’8 marzo. Una coincidenza fatale e che ha reso impossibile il nostro sciopero. Ma Donna, oggi, è più che mai una declinazione politica.