Il testo di partenza è quel Le prénom da cui cui gli autori, Alexandre de La Patellière e Mathieu Delaporte avevano tratto il loro film, Cena tra amici, divenuto un successo oltralpe e internazionale. Francesca Archibugi ne realizza un «remake» che in realtà non è tale pure se conserva la situazione originaria, la cena tra vecchi amici appunto, e la lite sul nome scelto da uno di loro per il figlio, che nel corso della serata si trasforma in una violenta «resa dei conti».

La regista insieme a Francesco Piccolo con cui ha scritto la sceneggiatura «traduce» infatti letteralmente il testo francese nel cortile di casa (nostra) a cui adatta personaggi, situazioni e battute a cominciare dal nome in questione, che diventa Benito, e alla coppia di centrosinistra suona ancora più oltraggioso visto che a sceglierlo è il figlio di una famiglia intellettuale comunista e ebrea, i Pontecorvo. Pure se lui, Alessandro Gassman, a differenza della sorella, Valeria Golino, che ha sposato l’amico cresciuto con loro, e prediletto dal padre più dei figli, Luigi Lo Cascio, oggi docente universitario malato di tweet (ma niente a che vedere col premier) e con lui ha due figli, dal nome di sinistra, dunque «strano» Mirtilla e Pin, è diventato agente immobiliare, vota centrodestra e ha sposato una borgatara, Micaela Ramazzotti, con ambizioni da scrittrice. Anzi che ha già scritto un libro – se lo è fatto scrivere commenta acido il personaggio di Lo Cascio che ovviamente non lo ha letto come tutti gli altri – e però è diventato subito un best seller mentre il suo ha venduto manco trecento copie. E a recensirlo con entusiasmo c’è anche la madre dei Pontecorvo.

Piú che il film francese il primo riferimento che viene in mente è il vecchio Ferie d’agosto di Paolo Virzí (qui produttore) dove si scontravano la famiglia di destra e quella di sinistra, la prima cafona e chiassosa, che aveva letto solo «le istruzioni del cellulare» – battuta che fece epoca- la seconda colta e molto alternativa. Solo che per rimanere nel cortile di cui sopra da allora sono passati vent’anni (era il 1995), e viene da chiedersi se nell’Italia post-berlusconiana e renziana questo gioco abbia un senso (mentre scrivo leggo con sconforto gli accordi per la nuova legge elettorale tra Renzi e Forza Italia).

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Certo alla proiezione stampa la gente rideva alle battute di Alessandro Gassman e al suo scontro edipico col padre ingombrante(piú di un sottotesto) o al frasario di un occhialuto Luigi Lo Cascio, caricatura di un intellettuale che non esiste.O ancora davanti a Valeria Golino che saltella per fare yoga casalingo e mantenersi in forma. O agli equivoci su Claudio, (Rocco Papaleo) musicista di successo, anche con lui si conoscono da ragazzini, che tutti (idea bipartisan) sono convinti sia omosessuale perché porta sciarpette di seta, si profuma e cura la casa – solo i gay possono, i veri maschi devono puzzare nella sporcizia di sudore ruvido. Vabbè.

Il problema dei padri è senz’altro anche quello della generazione di Virzí e di Archibugi – quasi coetanei generazione Sessanta – eredi per forza (o a tutti i costi) della tradizione italiana della commedia,Virzí piú di Archibugi che cita comunque i «padri«. Evidenti come Scola e le sue «terrazze» qui trasferite al Pigneto perché quartiere di moda tra gli alternativi di sinistra (la casa della cena è della coppia Golino-Lo Cascio). O nascosti – il libro di Gianni Amico il regista con cui Archibugi ha iniziato lavorando nelle Affinità elettive per la tv. O più vicini, Nanni Moretti e le canzoni del cuore cantate a squarciagola flashback di sogni del passato (Lucio Dalla) e di vita che cambia. Con il compito dichiarato di parlare dell’oggi, di fare commedia sociale o di costume e di cercare la realtà tanto più vera se romanzata (e con parto «vero» di Ramazzotti nel finale).

http://youtu.be/8I_dFVif-9Y

Lasciamo da parte l’aspetto visivo – che pure sarebbe importante, la commedia «da camera» è difficilissima e in questa tavola la macchina da presa non ha mai la fluidità della conversazione -va detto però che gli attori sconfiggono con bravura gli interni nello stile fiction italiana di prima serata che ormai funesta il nostro cinema. Ma chi è che critica questo film, che cosa mette alla berlina? L’impressione è che i tanti luoghi comuni, così rassicuranti, compresa l’ossessione virziana dei borgatari che sono più «sinceri» dell’intellettuale, alla fine diventi una specie di (forse persino involontaria) presa in giro di sè stessi. Di certo non è l’Italia di oggi assai più vischiosa e omogenea che si colpisce, anzi se ne assecondano le abitudini senza mettere in crisi nulla e nessuno. La commedia però, anche quella italiana, è altra cosa.