La scelta del sonetto per raccontare un momento storico carico di tensioni e la violenza a sfondo razziale non era una novità nella poesia afroamericana, quando il giorno dopo le elezioni presidenziali del 2016, Terrance Hayes cominciò a scrivere i Sonetti americani per il mio assassino del passato e del futuro, ora proposti da Tlon (traduzione di Mario Capello, pp. 179, € 16). L’adozione di questa forma chiusa risale infatti al 1773, quando la poetessa schiava Phyllis Wheatly la introdusse in America aprendo la strada al cosiddetto «sonetto di protesta», abitato dalla voce e dal corpo di scrittori neri per lanciare una sfida alla poesia occidentale e alla cultura bianca.

Perfezionata all’inizio del XX secolo dai poeti dell’Harlem Renaissance, che sostituirono il tema amoroso con contenuti politici e sociali, si ritrova vivificato nella scrittura di poeti neri contemporanei che, come Hayes, usano questa griglia metrica come uno spazio pubblico ideale per denunciare l’epopea afroamericana, il razzismo strutturale e istituzionalizzato.

La storia di un poeta nero, scrive Hayes, ha inizio con i traumi antichi di persone cadute dalle prue delle navi all’origine della schiavitù, oggi fantasmi che nessun assassino potrà uccidere. L’insolito destinatario di questa collana di sonetti è un killer proteiforme che indossa la maschera dei politici di turno, della polizia, del cancro, del cibo spazzatura, delle sparatorie di massa, dell’America stessa. La morte prende il nome di città dove la polizia ha ucciso neri disarmati, il nome di vittime e carnefici, perfino di brand di cibo industriale, in un’ampia ricognizione del conflitto fra black e white, avvinti in una paradossale simbiosi, il cui intreccio è marcato dall’uso frequente della &.

Hayes guarda dal suo presente indietro e avanti componendo un folgorante canzoniere di incubi e sogni che suona come un fluido pezzo jazz, aggiornato in una lingua di straordinaria ricchezza, un po’ jazzy, un po’ rock e rap, scaturita dalla rabbia, dalla ferocia, dal dolore e dall’amore. Affascinato dalle parole, Hayes le plasma dando loro un ritmo magistrale, fino a farne a volte degli scioglilingua. E modula la voce – malinconica, urbana, intellettuale, feroce o gentile – in un’esplosione di parole, fatti, persone e soprassalti linguistici.

Il sonetto, American style, è la perfetta metafora della condizione dei neri, chiusi in gabbia come uccelli frementi; è «un intrico di cavi», «testimonianza e sogno a occhi aperti», e funziona da elemento base di una sequenza, il long poem americano, che Hayes reinterpreta in un grandioso dramma del XXI secolo.«Ti chiudo in un sonetto americano che è parte prigione», dice al suo assassino, «Parte stanza antipanico, una stanzetta in una casa in fiamme». Con la sua lingua aspra e tagliente, Hayes tramette l’idea che ogni incontro sia una «jambalaja esistenziale», ovvero l’arte di mischiare, come si fa con questo piatto creolo, ingredienti diversi.