Abbiamo voluto in questo numero di Alias che precede gli Oscar segnalare le nostre preferenze che si sono concentrate su Clint Eastwood e su Abderrahmane Sissako autore di Tibuktu, poesia sublime, candidato come miglior film straniero. Sia American Sniper che Timbuktu parlano di venti di guerra sia pure in modo diametralmente opposto, con la messa in scema della tecnologia militare il primo e della cultura millenaria il secondo. Sulle pagine del quotidiano ci sono già stati vari interventi su Sniper, ma avevamo la necessità di un approfondimento – pensiamo che anche i nostri lettori siano divisi su questo film – così da poterlo leggere anche tra le righe, a più voci. Ricco di insegnamenti utili (bisogna tenere tutti e due gli occhi aperti quando si vuole mirare il bersaglio, indossare una gonna di velluto a coste se non si vuole essere importunate in un bar, non abbandonare mai il fucile a terra dopo aver sparato), è poi difficile concentrarsi sullo stile volutamente scabro, ad andamento circolare, perché tanti sono gli elementi esterni del drammatico presente che interagiscono con lo schermo. Nel voler mettere bene in chiaro la pulsione principale del protagonista, difendere la patria, separare il bene dal male, bisogna saper cogliere la complessità di quel percorso indicato dal regista, una costruzione non così elementare a fronte della scarna filosofia (si direbbe di frontiera) del protagonista. Una filosofia da cowboy che Clint Eastwood riesce a mettere in scena come fosse un western, tutto girato sui tetti come in cima alle montagne, secondo gli insegnamenti del maestro Allan Dwan. Così poche idee in testa ha Chris Kyle – del resto non bisogna pensare troppo se si vuole colpire l’obiettivo, come ci insegnano anche i film sul baseball – tanto la sua mira è infallibile, più di cento sono le sue vittime uccise allo scopo di proteggere le spalle ai marines che pattugliano le strade. Ma il suo compito non ha termine finché non uccide il nemico principale, «il macellaio» che opera con fucile e cellulare. Bisognerebbe a questo proposito analizzare anche le inquadrature che indugiano sulle sue ciglia folte e ricurve come quelle di una diva del passato. In quelle ciglia svolazzanti come farfalle si cela un po’ dell’elemento occulto del film, l’assenza di elemento femminile. La donna non fa per il cavaliere solitario che dopo aver ucciso i banditi non accetta la stella di sceriffo e se ne va al galoppo oltre l’orizzonte. Meglio morire che tornare a casa fra i cuscini del salotto.