Il centenario del Pci ha rappresentato un’occasione per tornare a fare dei bilanci sulla storia del partito. Un contributo importante è venuto dalla Fondazione Gramsci, che già nel 2020 aveva avviato un lavoro collettivo di riflessione poi culminato nella pubblicazione di un volume curato da Silvio Pons, Il comunismo italiano nella storia del Novecento (Viella, pp. 664, euro 49). Il libro raccoglie una trentina di saggi che ripercorrono la storia del Pci. Gli autori appartengono a diverse generazioni, compresa quella di coloro che non hanno vissuto gli anni della «Repubblica dei partiti». Come si legge nell’introduzione, «il volume non ha alcuna intenzione celebrativa» non assumendo il fine di «stabilire necessariamente narrazioni delle continuità» o «interpretazioni univoche». Di questo e di altri aspetti abbiamo parlato con Pons, presidente della Fondazione Gramsci, docente alla Normale di Pisa, studioso del comunismo e autore de I comunisti italiani e gli altri. Visioni e legami internazionali nel mondo del Novecento (Einaudi), recensito sul manifesto da Francesco Benigno il 28 maggio dello scorso anno.

La Fondazione Gramsci contribuisce da tempo alla comprensione storica del comunismo italiano. Come è cambiata la storiografia nell’ultimo ventennio?
Gli studi sul Pci non potevano che cambiare insieme a quelli sull’Italia e sul 900. In questo libro, per esempio, è fondamentale l’apporto fornito da prospettive diverse dalla storia politica tradizionale. Penso alla storia sociale, di genere, a quella culturale, con una particolare attenzione alla dimensione globale. Inoltre, ci si propone di andare oltre i confini della storia del partito per investigare quella dei «comunisti», intesi come soggetto più ampio.

A tale proposito, come si è evoluto il modo di «essere comunisti» dal partito rivoluzionario alla svolta di Togliatti?
La Seconda guerra mondiale ha rappresentato una cesura culturale e politica anche per i comunisti. Ha siglato l’avvento del «partito di massa», da intendersi non soltanto in termini di successo elettorale, ma come una specificità italiana. Con il passaggio attraverso la Resistenza si modifica anche l’ethos dei comunisti che da «rivoluzionari di professione» diventano militanti di un «partito nuovo» che si presenta come pienamente inserito nella storia nazionale. Grazie a questa svolta, voluta da Togliatti, l’identità comunista cambia adattandosi alle esigenze della politica e rispondendo a nuovi stimoli. In sostanza, si passa dal partito di avanguardia, per certi aspetti elitario, ad un soggetto che vuole includere le donne, i credenti, insomma il popolo nella sua composizione reale. In questo modo, il Pci riesce non soltanto a resistere, ma anche a prosperare nel capitalismo degli anni ’50 e ’60.

Gli storici hanno riflettuto a lungo sul nesso tra il piano nazionale e quello internazionale del comunismo italiano. Tuttavia, nel volume la prospettiva internazionale è più ampia. Questo è anche un libro di storia globale? Si può parlare di una nuova interpretazione dell’internazionalismo?
Da diverse angolature i saggi ripercorrono la genealogia e la storia dell’internazionalismo comunista a partire dalla lezione di Gramsci. Nel corso dell’intera vicenda storica del partito i suoi dirigenti si percepiscono come espressione di un grande movimento globale. Si tratta però di un’autocoscienza critica da parte di un gruppo a forte vocazione intellettuale. Sono «i primi della classe», per usare le parole di Amendola. Lo si vede già nella lettura che viene data del fascismo, molto distante dagli schematismi del Comintern. Lo si evince, per esempio, dal Memoriale di Yalta, in cui Togliatti non risparmia critiche severe all’Urss. Dopo la morte di Stalin la polemica si inasprisce, senza comunque che i comunisti arrivino a mettere in discussione la propria collocazione, considerata imprescindibile per dare rilevanza all’opzione comunista su scala nazionale e internazionale. Nel libro si osserva come l’originalità del Pci consista nella capacità di creare reti transazionali che vanno oltre la dicotomia Est-Ovest e che costituiscono canali alternativi alla politica istituzionale. Il processo di decolonizzazione, per esempio, è fondamentale per comprendere il passaggio del 1956. La crisi di Suez viene considerata dai dirigenti comunisti come un’opportunità per rispondere a quella ungherese e, se vogliamo, bilanciarla. Il «policentrismo» costituisce dunque una visione fuori dallo schema binario della Guerra fredda. Grazie a esperienze come Cuba, l’Algeria di Ben Bella, l’Egitto di Nasser, l’Indonesia di Sukarno, i comunisti capiscono che il socialismo non soltanto si sta espandendo, ma sta anche cambiando e il partito intende assecondare questo cambiamento.

Come si inserisce in questo discorso il rapporto tra la segreteria e il gruppo del manifesto?
La rottura ha più implicazioni nella storia internazionale che in quella italiana perché il gruppo del manifesto propone una linea terzomondista e antimperialista più radicale di quanto gli eredi di Togliatti siano disposti ad accettare. Molto problematico è il nodo del maoismo, perché implica una rottura con Mosca. La repressione di Praga nel quadro del ’68 sancisce per la «nuova sinistra» il punto di non ritorno dell’Urss.

Negli anni ’70 il Pci di Berlinguer raggiunge l’apice della sua influenza politica. Lo certificano i risultati elettorali, che colpiscono ancora di più nella cornice del declino degli altri partiti comunisti europei. Quali gli elementi di discontinuità?
La discontinuità deriva dalla necessità di Berlinguer di reagire all’onda lunga del ’68, allo shock economico globale degli anni Settanta e alla crisi del sistema sovietico. Come è noto, il segretario del Pci arriverà a proclamare «esaurita la spinta propulsiva della Rivoluzione di ottobre». Contestualmente, si rafforza l’interesse per l’Europa come soggetto politico, soprattutto dopo la celebrazione della Conferenza di Helsinki. Il Pci si fa promotore del progetto dell’«eurocomunismo», che si muove nella direzione di un europeismo del movimento operaio alternativo all’ordine neoliberale. Ormai da alcuni anni è vivace anche il dialogo con le socialdemocrazie, in primo luogo con l’Spd. Sono traiettorie che non possiamo ignorare per spiegare il disegno di Berlinguer: dalla proposta del «compromesso storico» al suo fallimento.

Alcuni saggi trattano di argomenti «scomodi» come il femminismo. O di temi specifici come costumi e consumi e aspetti di grande attualità (ecologismo, Europa, migrazioni, diritti umani). Quale quadro ne deriva?
Il quadro che emerge è segnato dalla volontà del comunismo italiano di intercettare le dinamiche della società, assumendo anche le istanze di alcuni movimenti come il femminismo o l’ambientalismo. Questo è ancora vero negli anni ’80, ma a quel punto il logoramento determinato dalla «solidarietà nazionale» e, più in generale, la crisi dei partiti di massa indeboliscono la capacità reattiva dei comunisti, sempre più in difficoltà ad affrontare politicamente i cambiamenti di paradigma: da quello post-industriale a quello post-welferista. Decisive nella sconfitta sono poi le dinamiche della Guerra fredda e della sua conclusione.

Quale è stata l’eredità del Pci?
Negli anni ’90 la discussione è stata incentrata sulla figura di Berlinguer. Oggi la storiografia ragiona diversamente e anche questo libro evita la personalizzazione. L’eredità del comunismo italiano va problematizzata nel lungo periodo: un’operazione complicata se consideriamo cosa ne è stato della sinistra dopo l’’89. A mio parere, il Pd sconta ancora alcuni problemi di fondo che aveva l’ultimo Pci. È rimasta però un’attenzione al mondo, e innanzitutto all’Europa, che fa ancora oggi da argine alla diffusione dei sovranismi.