Sullo sfondo c’è lo scenario di un conflitto senza pace: la nascita dello Stato d’Israele e la nakba palestinese. Ma ciò che racconta Matti Friedman in Spie di nessun paese (Giuntina, pp. 264, euro 18, traduzione di Rosanella Volponi) indagando alcuni aspetti della vigilia e del contesto di quel fatidico 1948, sembra andare in un’altra direzione.

ATTRAVERSO una ricerca tra i materiali recentemente desecretati degli archivi dell’Haganah e gli incontri con uno dei protagonisti della storia, il giornalista israeliano di origine canadese ha infatti ricostruito la breve esistenza della «Sezione araba» di quella sorta di intelligence che i combattenti ebraici organizzarono durante gli ultimi anni del mandato britannico in Palestina.

Le vicende che Friedman riporta d’attualità hanno i volti e i nomi di Gamliel (alias Yussef), di Yitzhak (Abdul Karim), di Havakuk (Ibrahim) e di Yakuba (Jamil) tutti giovani ebrei nati e cresciuti rispettivamente a Damasco, Aleppo, nello Yemen e a Gerusalemme che insieme ad un pugno di coetanei, sempre intorno ai vent’anni, operarono nel periodo precedente e immediatamente successivo la nascita di Israele.

Erano giovani cresciuti nelle popolose comunità ebraiche del mondo arabo – solo a Baghdad un terzo dei residenti erano ebrei ancora negli anni Quaranta – soliti condividere abitudini, stili di vita, lingua con il resto della popolazione: per molti l’ebraico era solo il linguaggio degli studi e della fede, non quello della quotidianità. Erano, allo stesso modo, abituati a condurre delle vite sotto tutela, spesso privi dei diritti degli altri cittadini e esposti ai ricorrenti scoppi di violenza di cui erano le vittime privilegiate. Eppure, scelsero di darsi un nome ricorrendo ad una parola che, come sottolinea Friedman, esiste sia in arabo che in ebraico, ma non in inglese: mista’arvim che traduce l’espressione «quelli che diventano come arabi».

SE IL SIONISMO era cresciuto in Europa, specie nelle regioni orientali, se i primi leader del Paese avevano le medesime origini come anche i primi collettivi che animarono l’esperienza dei kibbutz, questi giovani «avevano trovato la loro strada in uno dei pochi luoghi del movimento sionista dove si dava valore alla loro identità».

In un testo che ha il fascino e il timbro narrativo di una spy story, più l’intreccio psicologico e l’introspezione di Eric Ambler e Le Carré che gli «effetti speciali» di Ian Fleming, Friedman sembra così interrogare l’identità di fondo del Paese che sarebbe sorto nel 1948 come di quello che ne ha ereditato le sorti fino ad oggi.

Accanto alla descrizione delle azioni eclatanti di questo pugno di spie alle prime armi, spesso formate in pochi mesi – tra quelle descritte, l’aver sventato un attentato con un camion bomba ad Haifa e la distruzione di uno yacht già appartenuto a Hitler ancorato nel porto di Beirut -, al lettore viene proposto di inquadrare dal punto di vista di questi giovani «diventati come arabi» l’intera vicenda israeliana. Vale a dire tenendo conto di come «per metà della popolazione del Paese, il Medio Oriente non è cosa nuova, come non lo è la tensione con una maggioranza musulmana, è semplicemente l’ennesima iterazione di una forza che ha plasmato le loro famiglie per secoli».

Le storie della «Sezione araba», i volti dei giovani uomini dalla pelle scura e gli occhi neri e penetranti raffigurati nelle molte immagini che appaino nel libro, raccontano un altro profilo, tutto mediorientale dello Stato ebraico.

UNA PROSPETTIVA non certo inedita, ma spesso volutamente dimenticata, come sintetizza Friedman ricorrendo ad un’immagine. «Al Cairo – scrive il giornalista – c’è un murale gigantesco che celebra l’attraversamento del canale di Suez da parte dell’esercito egiziano nella guerra del 1973». Nel «dipinto» gli israeliani sono raffigurati tutti biondi. «Il che è alquanto comico perché, se avete visto veramente i soldati israeliani, saprete che molti di loro sembrano proprio degli egiziani. E senza dubbio alcuni dei soldati israeliani presso il canale di Suez erano davvero egiziani».