Verso la fine delle Grandi correnti della mistica ebraica, Gershom Sholem racconta una antica leggenda chassidica: storie di rebbe, delle loro comunità e dei loro prodigi che sostituiscono alle disquisizioni teoriche la materia favolosa di vicende esemplari e stupefacenti. Il Baal Shem Tov – ricorda Scholem citando Agnon – amava rifugiarsi nei boschi; accendeva un fuoco, meditava, diceva preghiere e, per incanto, tutto ciò che desiderava si realizzava. Di generazione in generazione, di rebbe in rebbe, scompare il bosco, non si accende il fuoco, si dimenticano le preghiere, ma «di tutto questo possiamo almeno raccontare la storia» afferma decenni dopo Rabbì Ysra’èl di Rishkin affidandosi senza incertezze al potere inesauribile del racconto.
Il kibbutz, con il suo messianesimo laico, il linguaggio meticciato di collettivismo e umanesimo, le utopie della rifondazione e la mescolanza spesso irritata di lingue e culture rappresenta fin dalla nascita, ma soprattutto nella sua lunga e ormai compiuta decadenza, una fonte inesauribile di storie che conservano la magia e il ‘miracolo’ degli inizi.

Dalle memorie di Oz
«Laggiù, da loro, – scrive Amos Oz in apertura di Una storia di amore e di tenebra – capitavano davvero grandi cose. Laggiù si stava costruendo un paese e riformando il mondo, laggiù stava fiorendo una società nuova, laggiù imprimevano il loro sigillo sul paesaggio e sulla storia, laggiù si aravano campi e si piantavano vigneti, si componeva una nuova canzone, laggiù si cavalcava armati, si rispondeva col fuoco al fuoco arabo, si prendeva la squallida polvere d’uomo, e si creava un popolo combattente. Sognavo segretamente che un giorno o l’altro mi portassero via con loro. Che trasformassero anche me in un popolo combattente. Che anche la mia vita diventasse un canto nuovo, una vita pura, onesta e semplice come un bicchiere d’acqua fresca in una giornata afosa».

Nata sul filo di questo entusiasmo, e, come per il racconto chassidico, nella prospettiva di affidare la forza del miracolo alla narrazione, la letteratura del kibbutz si sviluppa fin dai lontani anni Trenta in progetti geniali e difformi strettamente intrecciati con gli sviluppi nazionali e ostinatamente ‘impegnata’ sui conflitti, sul futuro, sui possibili modelli di sviluppo della terra di Israele.

La storia sulle spalle
Non si tratta della biografia di un luogo (o di più luoghi) come suggerisce Arik Glasner, ma di una esperienza che si fa epopea, una discreta epopea ebraica, fatta di personaggi che portano il fardello di una storia scomoda e di un’anima inquieta, di un ideale insieme antico e nuovo nel quale ci si perde a volte e che a volte si rifiuta. «Vedo il kibbutz – scrive Elisha Porat, scrittore e fondatore dell’insediamento Ein Hahoresh – come un’arena completamente illimitata per tutti i possibili eventi umani. (…) Per me, l’importante è che sia un piccolo villaggio con cui ho molta familiarità, che può essere trasformato in un’arena per tutte le lotte del mondo». È il sogno di Isacco Krumer – il protagonista di Appena ieri di Agnon – che dalla Galizia arriva in Palestina sognando vigneti e filari di ulivo, campi dai raccolti generosi, alberi carichi di frutta, vallate in fiore e case piene di letizia; è la vita dei personaggi di Ladri nella notte di Arthur Koestler, i ‘tedeschi’ che costruiscono in Galilea la Torre di Esra, trascinando traumi, pericoli e una precaria umanità da preservare a ogni costo, o di Nuri, il protagonista del romanzo di Amir, E’ questa la terra promessa?, sefardita emarginato e infelice, in una comunità di ashkenaziti ideologica e intollerante.

Ripetuta agli angoli del mondo, diventa un’epopea consolatoria che si diffonde nel dopoguerra, insieme all’elenco interminabile dei morti, con aneddoti divertenti, surreali, strampalati che rendono più vicino e più palpabile il progetto di un riscatto. Nella speranza che – come scriveva Benjamin – sia il narratore «il luogo in cui il giusto si incontra» con la verità e la storia.

In Verso casa, il suo unico romanzo, stampato con enorme successo nel 2009 in Israele e proposto ora in una bella traduzione da Shulim Vogelmann e Rosanella Volponi per Giuntina (pp. 342, € 18,00), Assaf Inbari racconta la storia di uno dei kibbutz sorti nella valle del fiume che accoglie Lot in cerca di una terra «ricca come il giardino del Signore» e che sembra addirittura placare l’angoscia di Isaia: «Ma le tenebre non dureranno sempre sulla terra – afferma il profeta con gioia messianica –. Come nei tempi passati Dio coprì di obbrobrio il paese di Zabulon e il paese di Neftali, così nei tempi a venire coprirà di gloria la terra vicina al mare, di là dal Giordano».

Il kibbutz dove Inbari è nato nel 1968 e ha vissuto per venti anni si chiama Afikim: è un insediamento creato nel 1932 da coloni fuggiti dalla Russia, tra Deganya, Kinneret Kvutzah, i leggendari centri rurali di quel lembo di terra destinato a diventare grande e fiorente, malgrado le guerre, le crisi e gli abbandoni.

Con generosità, Amos Oz, che alla vita nel kibbutz ha dedicato testi indimenticabili, definisce il romanzo di Inbari «il miglior libro che abbia mai letto sulla nascita e il declino del kibbutz e sulla conseguente, profonda trasformazione dell’anima d’Israele».

Nascita e declino che Inbari insegue nella vita dei suoi sette, diversissimi, personaggi principali. La storia inizia avventurosa e pittoresca in Russia: nasce dall’orrore e dalla necessità, ma anche da alcuni degli ideali che la Rivoluzione di ottobre aveva diffuso: l’egualitarismo, il collettivismo, la diffidenza per tutto ciò che aveva anche solo sentore di ‘liberale’. Poi, gli anni passano portando nuovi fuggiaschi e altre culture. Nasce lo Stato di Israele, si moltiplicano paure e fucili, gli abitanti diventano a volte ministri, entrano in Parlamento per poi tornare indietro alle loro case e alla loro terra. Lentamente, consumi, modernità, individualismo scardinano quel mondo che si consuma lentamente e inesorabilmente: Afikim diventa un centro di produzione, arrivano le televisioni, i manager, l’idea del profitto, nuovi conflitti e, inevitabile, la crisi.

La lunga vicenda del romanzo ha come protagonista il luogo, non la sua gente, ed è scritta da un autore allergico a quello che in un saggio del 2012 (Inbari, The Kibbutz Novel as Erotic Melodrama) definisce «l’erotismo del kibbutz»: troppo giovane per averlo vissuto, troppo accademico e fuggitivo per portarne addosso le tracce identitarie. Con determinazione si sottrae alle idealizzazioni di anni lontani e a un canone letterario, proponendone coraggiosamente uno diverso: più realista, più storico, sicuramente più ragionevole.

Racconta in terza persona – cosa tutt’altro che scontata – mantenendo la distanza da avvenimenti e personaggi e invitando anche i lettori a sottrarsi all’empatia: si sorride – scrive critico Balaban – ma non c’è modo di entrare in quello spazio, in quei sogni, nelle tragedie e nelle delusioni.

Aspirando alla normalità
Senza miti e senza eroi, Inbari ricostruisce una storia affascinante su documenti, lettere fragili, stanchi racconti, ricordi di una adolescenza insoddisfatta. È la letteratura dei nipoti che hanno perso l’esigenza di un confronto serrato con quella eredità di sogni e costumi. Rimangono gli aneddoti su personaggi bislacchi, rubati alla penna di Sholem Alejchem, su eventi curiosi e quotidiani in cui la storia fa irruzione con una dose di buona educazione.
Che questo romanzo efficace e raffinato, costruito con sapienza per rinnovare una tradizione letteraria e per suggerire sobrie riflessioni sul suo paese abbia avuto tanto successo, per 10 mesi in vetta a tutte le classifiche di Israele, racconta forse anche un’altra storia, quella del desiderio di normalità di una nazione che alla normalità guarda ancora come a una aspirazione.