Lo scontro in Venezuela polarizzato nelle figure del legittimo governo di Nicolás Maduro e l’autoproclamato presidente Juan Guaidó non si placa. Parte della partita si gioca oltre i confini venezuelani, e si inserisce nelle guerre asimmetriche che alimentano il capitalismo internazionale. Ma per dare uno sguardo anche dentro la società del paese latinoamericano abbiamo intervistato Emiliano Teran Mantovani, sociologo dell’Università centrale del Venezuela e dottorando all’Università autonoma di Barcellona.

Com’è la situazione oggi in Venezuela?

È la più pericolosa della storia recente del paese. Si mescolano un gigantesco malcontento sociale contro il governo Maduro, che ha generato una repressione vista solo ai tempi della dittatura; una profonda crisi economica, forse senza precedenti in tutto il Latinoamerica, che obbliga le persone alla precarietà precipua del tempo di guerra; un’opposizione screditata e divisa, che trae ossigeno dalle mobilitazioni odierne. Opposizione oggi guidata da gruppi di destra radicale, collegata al governo americano e ai peggiori governi continentali della destra. Si rischia la creazione di uno stato parallelo, accompagnato dal frazionamento delle forze armate, o dall’intervento militare straniero. Una sorta di guerra civile internazionale. Le conseguenze sarebbero irreparabili non solo per il Venezuela, ma per tutto il continente. Maduro pare non voglia cedere, potrebbe quindi esplodere la violenza e potrebbe essere deposto. Se questo dovesse accadere, andrebbe contro l’interesse del popolo e attraverso un processo di ristrutturazione economica neo-liberista e con un governo repressivo. Un dialogo potrebbe evitare il conflitto armato, ma dipende da quali settori si rendono disponibili per la trattativa.

Chi sta nelle piazze?

Andiamo oltre la polarizzazione. Chi è per le strade oggi segue le convocazioni dei partiti politici. La maggioranza sta con le opposizioni, ma questo non significa che non vi siano rivendicazioni altre e che non ci sia distacco dai partiti. Prima del 21 gennaio, in tutto il paese c’erano tante e frammentate proteste per chiedere servizi, accesso all’acqua, trasporti, sicurezza, diritti sul lavoro, terre e rispetto delle territorialità indigene. Questo è il vero cuore sociale della protesta, quindi non vi è un referente organico generalizzato, però si vede nell’asse Guaidò-Usa-Gruppo di Lima l’opportunità di uscire dalle difficoltà. Le mobilitazioni governative sono state più discrete, e rappresentano una comunità politica molto fedele e unita. Il livello di malcontento è il più alto mai raggiunto nei 20 anni di rivoluzione bolivariana, tanto che le proteste riguardano anche i quartieri popolari. Questo ne cambia il colore, perché, fino ad ora, le proteste avvenivano solo nei quartieri benestanti. Inoltre ora vi partecipano anche bande criminali, e ciò riflette la complessità della situazione.

La crisi economica come si è sviluppata?

È già in essere da 35 anni, ma è state attenuata fittiziamente e momentaneamente con il boom delle materie prime nella decade passata. Il modello di accomulazione è finito: tutte le infrastrutture del capitalismo venezuelano sono in frantumi, e ora si aggiunge il crollo dell’industria petrolifera che produce poco più di un milione di barili al giorno. Sono molteplici i fattori del crollo vincolati all’indebitamento dell’impresa, al collasso politico-istituzionale del paese, alla corruzione, al vandalismo e ad altri fattori. A questo occorre aggiungere che la corruzione, in tutte le sfere del paese, ha fatto sì che l’economia informale illegale fosse dominante nel paese. Le rivolte di estrema destra hanno accresciuto l’instabilità politica e commerciale del Venezuela. Gli Usa hanno attaccato il paese con sanzioni economiche che, almeno dal 2017, hanno indebolito la capacità venezuelana di acquisire nuova liquidità e crediti. La recente imposizione dell’embargo su 7000 milioni di dollari è una specie di sentenza di morte per milioni di venezuelani. La Cina, e in maniera minore la Russia, hanno costretto il Venezuela alla dipendenza, creando un sistema di relazione-estrazione-indebitamento-dipendenza che ha aggravato la situazione. Ma la crisi non va via dal tramonto all’alba. Anche ci fosse un cambio di governo, ci saranno anni di conflitti prima della ricomposizione dei cocci della crisi.

Come se ne esce?

Occorre pensare a un’uscita costituzionale che permetta un referendum consultivo per rinnovare tutti i vari poteri politici. Il dialogo per evitare la guerra deve essere vigilato dall’Uruguay, dal Messico o dall’Onu, cioè da chi si è reso disponibile. Ciò che pare certo all’orizzonte è l’instaurazione di una governance repressiva neoliberista. A questo dovremmo pensare dopodomani, per capire come promuovere forme più solide di organizzazione popolare dove costruire autonomie e potere dal basso.