«Ahmad aveva 22 anni quando è stato ucciso da quel soldato israeliano. Era il primo dei miei figli. Dopo la sua nascita abbiamo aspettato qualche anno prima di allargare la famiglia. Per questo gli altri miei figli lo consideravano un secondo padre». Wafaa Manasrah, la mamma di Ahmad Manasrah, ha la voce rotta dall’emozione mentre parla di quel figlio che, ci ripete, gli aveva portato solo gioia e mai un dispiacere. «Si mostrava quasi sempre felice, era socievole, a scuola non aveva mai avuto difficoltà nello studio e nei rapporti con i compagni di classe. E si era iscritto all’università, alla facoltà di economia e commercio, perché voleva diventare un esperto di marketing…invece è stato ucciso, così, senza motivo. Mi hanno strappato mio figlio senza motivo», aggiunge schiarendosi la voce.

 

Ahmad Manasrah

La vita di Ahmad Manasrah è terminata il 20 marzo del 2019, poco dopo le 21, mentre tra risate e battute scherzose, con tre amici il giovane rientrava in auto a Wadi Fukin. Indossava l’abito buono perché nel pomeriggio a Betlemme aveva partecipato alla festa di nozze di una coppia di amici. Nei pressi di un posto di blocco dell’esercito israeliano a sud del villaggio di Al Khader, non lontano dall’insediamento coloniale di Efrat, è stato colpito – al petto e alle braccia – da tre dei sei proiettili sparati da un soldato. Del suo caso si parlò parecchio l’anno scorso. Ed è ritornato di attualità nei giorni scorsi perché il militare coinvolto, di cui non è nota l’identità, dopo essersi dichiarato «addolorato» per l’accaduto, ha patteggiato la pena con la procura militare: sarà condannato per «omicidio colposo» causato da «negligenza» ma riceverà una pena detentiva di appena tre mesi, sospesa, che sconterà svolgendo lavori utili in una caserma.

 

Il procuratore non ha preso in considerazione il ferimento grave, causato dagli spari dello stesso soldato, ad un altro palestinese, Alaa Raayada, 38 anni e padre di due bambine. L’Alta Corte di giustizia, su ricorso di Shlomo Lecker, avvocato della famiglia Manasrah, ha congelato per ora l’accordo. Non è detto che questa azione preluda all’annullamento dell’accordo. «Il giudice Noam Sohlberg ha accolto la richiesta della famiglia di riesaminare il patteggiamento ma non è possibile fare previsione sulle sue decisioni, potrebbe pronunciarsi contro l’accordo proposto dalla procura militare o prendere la direzione opposta. Meglio non illudersi, quando di mezzo c’è l’operato  di soldati in servizio, ottenere giustizia per i palestinesi è una impresa eccezionale», ci dice Roy Yellin, di B’Tselem, ong israeliana per la difesa dei diritti umani nei Territori occupati che sta seguendo la vicenda. Wafaa Manasrah non riesce a farsene una ragione: «Per gli israeliani la vita dei palestinesi non vale nulla, la vita di mio figlio vale tre mesi di lavori per la comunità».

 

Quanto accaduto la sera del 20 marzo dello scorso anno, non è un fatto insolito nella Cisgiordania palestinese sotto occupazione. Tutto ebbe inizio con un banale alterco tra due automobilisti. Alaa Raayada accostò a destra la sua auto, con a bordo la moglie e le figlie. Voleva dirne quattro a un altro automobilista palestinese dalla guida un po’ scorretta. A 50 metri di distanza c’era il posto di blocco israeliano. L’altro automobilista invece non si fermò e proseguì il suo tragitto. Quando Alaa fece per tornare al volante, da una torre di sorveglianza del posto di blocco israeliano partirono alcuni colpi di arma automatica. Uno lo raggiunse all’addome. Tra le grida di dolore dell’uomo, la moglie chiese soccorso ai quattro giovani sull’auto dietro di loro. I ragazzi chiamarono un’ambulanza. Poi di fronte all’abbondante sanguinamento del ferito decisero di portarlo subito all’ospedale. Ahmad Manasra restò con la moglie e le bambine di Raayada. Voleva mettere in moto l’auto e portarle a casa. Dal posto di blocco spararono ancora, tre colpi. Ahmad fu centrato in pieno petto. Inutile il tentativo di rianimarlo effettuato dai sanitari giunti con l’ambulanza chiamata in precedenza. Il giovane arrivò morto all’ospedale di Beit Jala. «Qualcuno ci avvisò che Ahmad aveva avuto un problema, senza darci particolari», ricorda la mamma «quando mio marito ed io arrivammo all’ospedale c’erano tante persone davanti all’ingresso, ero confusa non sapevo che pensare. Poi qualcuno disse ‘lasciateli passare, c’è la mamma dello shahid’ (martire) mi si gelò il sangue addosso, capii che Ahmad era morto. La fitta di dolore che provai in quel momento resterà incisa nel mio cuore per sempre».

 

Il soldato coinvolto, durante le indagini, ha dichiarato di aver sparato perché credeva che «quei palestinesi stessero lanciando sassi contro automobili di cittadini israeliani» e di aver esploso in aria in precedenza colpi di avvertimento. Il portavoce dell’esercito ha aggiunto che quel giorno «era stato diffuso l’allerta su un possibile attacco terroristico». Per i palestinesi si tratta di motivazioni volte a giustificare in qualche modo l’uccisione di Ahmad ed evitare al militare una condanna vera. Ricordano il caso di Elor Azaria, un soldato israeliano che a Hebron nel 2016 uccise a sangue freddo un accoltellatore palestinese a terra gravemente ferito e non in condizione di nuocere. Condannato a 18 mesi di detenzione, Azaria fu graziato dopo aver scontato metà della pena.

 

Questi patteggiamenti però sono rari, sottolinea B’Tselem. In quasi tutti i casi in cui i soldati uccidono palestinesi senza ragioni, le indagini si chiudono senza un rinvio a giudizio. Solo occasionalmente la procura incrimina i militari e, aggiunge l’ong, poi propone dei patteggiamenti con pene irrisorie. Di fronte a ciò B’Tselem qualche anno fa ha deciso di non seguire più queste indagini militari perché, ha spiegato, il suo operato oltre a non produrre risultati utili per le famiglie delle vittime palestinesi offriva indirettamente una sorta di copertura alle uccisioni.