Maledetto colui che è solo, l’ultimo progetto di Ermanno Giovanardi, è solo l’ultimo di una incredibile serie di collaborazioni a cui si è prestato Vincenzo Vasi. «Polistrumentista, compositore versatile e dallo stile surreale» come si definisce con un pizzico d’ironia nel suo sito. Ma è vero che il quarantanovenne musicista di Rimini suona basso, theremin, marimba, vibrafono, tastiere e si impegna – con profitto – con il canto. È recente anche la realizzazione di un album in proprio, Braccio elettrico, con brani originali e due cover.

Sei una sorta di nume tutelare del theremin, ma sei anche polistrumentista e soprattutto hai un elenco di collaborazioni più lungo di quello telefonico… Come nasce questa passione?

Beh, essere l’ultimo l’ultimo di quattro fratelli è stato decisivo per la mia formazione. Come tutti i bambini ero affascinato dai grandi e li seguivo ovunque potevo. Erano i 70 ed ero ancora un bambino quando avevo sviluppato un mio chiaro gusto personale, le mie preferenze andavano da Frank Zappa ai Gentle Giant, Steve Winwood, Battiato.

Tra le tue collaborazioni spicca quella con Vinicio Capossela. Qual’è il tuo approccio quando collabori in un contesto decisamente più mainstream?

Il mio approccio è sempre e comunque istintivo; il segreto sta nel fatto che quando io suono «a servizio» suono comunque me stesso, il che è molto diverso dal suonare passivamente la propria parte…chi capisce questo di me può ottenere il massimo. Vinicio, così come Mike Patton, Remo Anzovino e molti altri, l’ha capito subito, non è un caso se ancora collaboriamo insieme e credo che i risultati siano abbastanza visibili.

Fra i tuoi progetti collaterali l’attività insieme all’associazione Bassesfere che ha come scopo quello di divulgare la musica improvvisata e di ricerca….

Non sono più attivo come un tempo anche se collaboro ancora con loro e con chi ne è poi uscito. Bassesfere è una risorsa importante per quanto riguarda la musica di ricerca e se non è così conosciuta come meriterebbe, è perché paga probabilmente il prezzo di un isolamento dovuto al pensiero radicale nei confronti della musica. Ogni membro di bassesfere ha approfondito il suo rapporto con lo strumento fino a trovare un suono unico e strettamente personale. L’associazione è autonoma e non è supportata da alcuna entità di management, questo è uno dei motivi del perché non è conosciuta ai più. Una riserva indiana, come poche altre in Italia. Gli allievi tipo sono musicisti che hanno deciso di abbattere un muro di convenzioni. Non si parla di genere ma di mentalità.
Hai lavorato in passato con gli Ella Guru, geniale formazione emiliana di sperimentazione, attiva nella seconda metà dei 90…
Una tappa fondamentale, di svolta direi. Quando sono entrato, all’inizio come vibrafonista cantante e poi anche bassista, sono stato piacevolmente sorpreso dalla naturalezza con cui affrontavamo la musica. Devo molto a Giorgio Casadei che ha da subito avuto fiducia nelle mie capacità esaltandole al massimo spronandomi a superare i miei limiti. Così ho potuto liberarmi di tanti stereotipi e crescere artisticamente. Da quel momento mi si sono aperte le porte della musica improvvisata e di ricerca.
Il rock, in particolare nei 70, ha giocato molto con l’improvvisazione. Poi, quella vena si è per così dire, esaurita….
Potrebbe sembrare banale, ma per molti il termine «improvvisazione» potrebbe essere travisato con approssimativo, in realtà l’improvvisazione non si…improvvisa! Ogni l’improvvisatore parla sia il linguaggio comune e codificabile di altri improvvisatori che un suo linguaggio, frutto di un suo personale percorso formativo. Purtroppo spesso questa musica è vista come fastidiosa, tediosa o insopportabile. Questo a volte a causa di un approccio del musicista estremamente serioso. Dal canto mio cerco sempre di dare un carattere ludico e gioioso ai miei concerti e ti dirò, funzionano

Fra le tue tante collaborazioni spicca il nome di un grande del jazz, Butch Morris…

Era il 1996 al Podewil di Berlino e io ero in trasferta con l’orchestra Eva Kant, una creazione di Massimo Simonini, direttore artistico di Angelica Festival e amico di Morris. La conduction era la numero 61, noi eravamo quasi 40 musicisti improvvisatori, alla fine in 28 decidemmo di partecipare alla conduction. Butch si dimostrò subito professionale e umano, al pomeriggio prima delle prove spiegò la sua simbologia. Dopo poche ore eravamo già sul palco per il concerto, ricordo che era molto severo, fulminava con lo sguardo chiunque non stava attento e concentrato, me compreso… Molti di noi si sono innervositi e stavano quasi per lasciare la scena…