«L’autonomia è ufficialmente incardinata». Il tono solenne del comunicato della ministra leghista Stefani può far dimenticare che un annuncio simile era già stato dato da Salvini a dicembre scorso. La storia della riforma bandiera della Lega – la «secessione dei ricchi», un cambiamento dei connotati della Repubblica che potrebbe non passare dal parlamento – è stata fino a qui una storia di partenze senza arrivi. L’ultima nella notte tra mercoledì e giovedì. Per darla vinta ai 5 Stelle sul decreto crescita, la Lega ha preteso l’impegno che l’autonomia (ri)entri al prossimo Consiglio dei ministri. Che dovrebbe essere mercoledì. Fatto l’accordo, i non alleati di governo hanno immediatamente cominciato a darne due interpretazioni opposte.

Secondo Salvini «indietro non si torna». Annuncio accompagnato da un selfie con Zaia, il presidente del Veneto che è una delle tre regioni (le altre sono Lombardia ed Emilia Romagna) che scalpitano per ottenere le «forme ulteriori e condizioni particolari di autonomia» previste dall’articolo 116 comma terzo della Costituzione. Secondo Di Maio il problema è benaltro: «L’unico modo coerente e corretto per affrontare l’autonomia è elaborare soluzioni per il sud, anch’esse presenti nel contratto di governo». Campa cavallo, come traduce la ministra per il sud Lezzi: «Stiamo rivedendo l’autonomia assieme ai colleghi della Lega in modo che non ci siano differenza tra nord e sud. Soltanto quando il lavoro sarà fatto il Consiglio dei ministri darà il via libera».

Va avanti la guerra dei comunicati stampa, ma lo scontro sui contenuti è fermo a febbraio. Veneto e Lombardia chiedono uno sproposito di nuove competenze, in 23 materie, mentre l’Emilia «solo» 16. Per finanziare il trasferimento tutte e tre prevedono di trattenere una quota dell’Irpef riscossa nel territorio regionale. Ma il ministero dell’economia, audito il ministro Tria in parlamento, ha fatto crollare il castello degli annunci: impossibile che questo «riequilibrio» fiscale non comporti nuovi costi per lo stato. Oppure un impoverimento di alcune regioni a danno di altre.

Non solo. Il percorso bizantino che dovrebbe condurre alle autonomie speciali – messo a punto e avviato dal precedente governo di centrosinistra – prevede che il primo finanziamento delle competenze trasferite avverrà sulla base del costo storico: chi spendeva di più avrà di più. Una penalizzazione certa per il mezzogiorno. È previsto che un comitato stato-regioni individui entro un anno i fabbisogni standard ai quali fare riferimento. Ma non c’è alcuna garanzia che questo avvenga, visto che i livelli essenziali delle prestazioni, i famosi Lep, sono sulla carta da 18 anni ma non sono mai stati concretamente individuati.

Le distanze tra Lega e 5 Stelle dovranno essere almeno accorciate, al solito, in un vertice tra Conte, Salvini e Di Maio previsto per il prossimo martedì. Il giorno prima del Consiglio dei ministri dove dovrebbe arrivare il testo dell’autonomia. O meglio i testi, le tre bozze di accordo con le tre regioni apripista, documenti conosciuti (e contestati) da mesi. Se pure andasse così, il percorso resta sufficientemente lungo da consentire a Salvini si esultare per la promessa mantenuta e a Di Maio di garantire che non farà sconti. I primi passi sono annunciati dalla ministra Stefani: «Con Conte abbiamo stabilito la road map sulle fasi finali della trattativa, abbiamo confermato la necessità di un passaggio preliminare – alla firma del testo delle intese – nelle commissioni parlamentari».

È tutto qui il «pieno coinvolgimento del parlamento» che i 5 Stelle, presidente della camera in testa, da tempo promettono. Una ginnastica preventiva delle commissioni – secondo la Lega solo le due bicamerali che si occupano di questioni regionali e federalismo, secondo i grillini tutte le commissioni di merito delle 23 materie da trasferire – quando poi il contenuto dell’accordo stato-regione sarebbe, dopo la firma, non più modificabile dal parlamento. L’iter prevede poi che sia una commissione paritetica tra lo stato e la singola regione, non il parlamento, a decidere quali risorse «finanziare, umane e strumentali» trasferire. L’intesa finirebbe così blindata in una serie di decreti del presidente del Consiglio.
Tutto il potere, in definitiva, all’organo tecnico. E la competenza per la nomina della parte governativa, si spaventano adesso i 5 Stelle, è sempre della ministra Stefani, leghista.