Nel volume Spazi (s)confinati (manifestolibri, 2015, pp. 413), i sociologi della cultura Fabio Tarzia ed Emiliano Ilardi sostengono la tesi della centralità dell’immaginario nella storia degli Stati uniti e in tale ottica indagano quel «grande sistema comunicativo che, attraverso una strumentazione metaforica e allegorica, e un utilizzo del più svariato ventaglio di linguaggi, dà forma (attraverso i media) alle strutture culturali profonde e funge da mediazione tra queste ultime, gli individui e le trasformazioni storiche». Lo sconfinamento reaganiano tra il cinema e la realtà, l’attore e il politico dà conto di una forza dell’immaginario altrove storicamente molto più debole ovvero sostanzialmente alternativo rispetto alla realtà (quasi una compensazione rispetto a essa). Ci pare perciò davvero apprezzabile il tentativo compiuto in Spazi (s)confinati di indagare il ruolo del fattore-chiave immaginario. E di farlo sganciandolo da quella critica tipicamente marxista che lo relega a mera sovrastruttura determinata e funzionale alle dinamiche dell’economia capitalista. L’immaginario – pur non essendo l’unico fattore del mutamento sociale così come per McLuhan non lo erano i media – gioca un suo ruolo autonomo e in forza di questa autonomia interagisce con altri fattori, tipo quelli economici, a volte indirizzandoli in determinate direzioni. Inoltre, coraggiosamente, i due autori indagano le dinamiche dell’immaginario americano nel lungo periodo, mostrandone splendori e miserie, momenti di gloria e crepe dall’arrivo dei Padri Pellegrini all’affermazione di Barack Obama.

Le parole e le azioni di Reagan ci mostrano, inoltre, come il sentimento di un «Destino Manifesto» derivato dal puritanesimo, da un lato, e la conquista dello spazio derivato dall’esperienza della frontiera, dall’altro, siano riconoscibili come le grandi matrici di sviluppo dell’immaginario yankee. Ciò dalla sua origine e sino almeno all’esaurimento della spinta propulsiva offerta dalle vittorie nelle due guerre mondiali. Poi qualcosa si è incrinato: il Vietnam ha forse rappresentato il momento in cui l’America è stata chiamata più che in altre occasioni a prendere atto delle crepe del suo edificio. Lo spazio della giungla asiatica non è stato conquistato e dunque neppure riconsacrato. Il nemico, che l’America ha sempre assolutizzato (dalle streghe ai «demoni» rossi, dai gialli vietcong ai terroristi islamici), non è stato punito. E molti figli della nazione eletta non sono più tornati alle loro case, nella loro Città sulla collina, se non dentro body bags. La nazione non è riuscita più a manifestare la sua elezione, la sua predestinazione, il suo Destino. Una crisi che continua anche nella società globale di oggi, nella quale il ruolo degli Stati uniti non è ben definito, oscillando tra interventismo eccessivo e isolazionismo, rappresentazione del grande Satana e faro di democrazia. Dopo l’11 settembre e le guerre permanenti in Afghanistan e Iraq, non siamo più stati tutti americani.

L’America non riesce più ad affermare la sua egemonia culturale prima che politica in un mondo multicentrico e turbolento. Un mondo in cui l’ibridazione con l’alterità è diventata la regola, non si riconosce più nel meccanismo di chiusura e apertura, di distinzione e conquista che l’immaginario americano ha dispiegato nel passato. Può l’America riconquistare un ruolo definito in questo mondo? Spazi (s)confinati non offre una risposta univoca; si limita a richiamare l’attenzione sulla capacità di reinventarsi che l’immaginario americano ha mostrato nel corso del tempo. Nella loro ricostruzione gli autori sostengono, tra l’altro, che in America non è mai emersa una sfera pubblica capace di mediare le diversità. Negli spazi sconfinati della frontiera al massimo si è manifestata una pubblicità senza sfera pubblica. In tal modo, però, non si avvedono di utilizzare un metro tutto «continentale» per interpretare un fenomeno che – come loro stessi mostrano – a quel metro non si può riportare. Non una sfera pubblica di tipo argomentativo o in generale costruita sulle grandi fratture ideologiche ma una sfera pubblica fatta di single issue, agitazioni emotive, filamenti di immaginario, forse effimera ma non meno significativa, ha improntato la politica negli Stati uniti. Su questa base non è escluso che gli States possono ritrovare un ruolo nell’epoca delle sfere pubbliche diasporiche che, come insegna Arjun Appadurai, sono giocate proprio sull’immaginario.