Fra il monte Vettore e il monte Priora c’è una montagna chiamata Sibilla, perché (leggenda vuole) ci viveva una donna che tesseva coi raggi di sole filtrati dalle crepe della roccia. Chi ambiva a cambiare vita doveva interpretare i disegni sulla stoffa e porre le giuste domande. O forse (vuole altra leggenda) le fate della Sibilla si erano attardate troppo a lungo in un sabba con i pastori e la regina, presa dall’ira, provocando terremoti scagliò loro dalla cima quelle pietre che oggi sono Arquata del Tronto.

COMINCIA con queste suggestioni l’ultimo romanzo di Silvia Ballestra (La nuova stagione, Bompiani, pp.276, euro 17), e affianca subito a quegli scorci dal sapore magico nomi di luoghi celebri per la loro bellezza e la loro recente rovina: Norcia, Castelluccio, accanto alla parola angosciosa «terremoto».
Olga e Nadia, le protagoniste cugine della narratrice, si incamminano verso la vetta della Sibilla con alcune domande precise: «va a buon fine la vendita?», «ce ne liberiamo, delle palme?», «le tagliamo queste radici?».

NATURALMENTE, le risposte sono eco, e come tali sibilline: «ita, ita, ita» vorrà dire che andrà male o andrà in porto? Le due sorelle non lo sanno, ma sono determinate a vendere quelle terre che per il padre erano lavoro e vita, ma per loro sono a un tempo casa e zavorra: allontanate dalla campagna, sì per godere di più opportunità, ma anche perché solo «ragazze» in un mondo tutto al maschile e per molti versi spietato, non riescono più a padroneggiare la lingua di quei luoghi e il cambiamento che ha travolto il lavoro della terra.
Silvia Ballestra, marchigiana di Porto San Giorgio (ora parte della nuova provincia di Fermo, a cui non risparmia il suo sarcasmo), ha ammesso in un’intervista di sentirsi di campagna e di città a un tempo, ma predilige il racconto della provincia e sa bene che i «paesi tuoi» non coincidono con l’idillio bucolico, celano un lato oscuro: lo dicono le storie di violenza sulle donne evocate dal passato. Donne che avevano tentato di costruirsi una professionalità in quei luoghi, intrappolate in faide familiari, vicende legate a proprietà, eredità, criminalità organizzata. E lo dice, in un altro modo, la nuova stagione stessa, in cui Olga e Nadia si barcamenano fra ex mezzadri schivi e a volte ingannevoli, terzisti, commercianti, sensali di compravendite di piante, trasportatori, società «a scatole cinesi», ma pure faccendieri in cerca di terreni per pericolosi depositi interrati di gas.

IL ROMANZO di Ballestra è anche una storia di maturità, realismo e delusione, in cui – come confessa una sera Olga alla cugina – divenire adulte significa «disperarsi per una lettera di esproprio invece che per una lettera d’amore finito». I bagliori giovanili di quella controcultura in salsa marchigiana, in cui le due donne si sono immerse, sono lontani con le loro saghe romantiche. Evocati in pagine brillanti, dove la scrittrice descrive ancora un mondo che era il suo e che le è forse troppo caro per essere lasciato del tutto alle spalle. Ma pure il «compleanno dell’iguana» e i «giorni della rotonda» sono lontani. Ora arrivano quelli dei notai, dei geometri, delle preoccupazioni materiali, di un campo di palme belle e inutili da sradicare. Eppure le palme sanno mettere nuovi germogli anche da tronchi arsi e seccati.