Nella non proprio limitata, ma di certo non enciclopedica, conoscenza della cucina indiana di chi scrive, è un’impresa nominare un piatto tra l’Himalaya e i tropici che non contenga cipolle. Ed è difficile determinare se la passione indiana per la varietà di cipolla rossa sia la causa, o l’effetto, della centralità del bulbo negli equilibri letteralmente geopolitici dell’area.

Partiamo dai numeri. L’India è il secondo produttore al mondo di cipolle dopo la Cina: ogni anno, secondo i dati di New Delhi, ne produce di media quasi 23 milioni di tonnellate. Per il consumo interno, però, ne bastano «appena» 15 milioni. Il resto dovrebbe venir dosato con cura tra esportazioni e scorte, così da mantenere da un lato i prezzi accettabili per i consumatori (60 rupie al chilo, meno di 80 centesimi di euro) e i produttori indiani, e dall’altro alimentare la catena delle esportazioni nel resto della regione.

Quando tutto va come deve andare, in India di cipolle ce n’è in abbondanza e tutti i Paesi vicini si riforniscono da New Delhi senza alcun problema.
Nel subcontinente però spesso, molto spesso, il quieto vivere generale è suscettibile a sconvolgimenti drammatici, in grado di innescare un effetto a catena che collega direttamente il soffritto ai rapporti di buon vicinato tra le cancellerie di mezza Asia.

Come capita più o meno a scadenza biennale, anche nel 2019 l’approvvigionamento di cipolle in India si è incagliato per una classica serie di sfortunati eventi. A metà agosto, quando la distribuzione regolare del primo e principale raccolto dell’anno inizia a scarseggiare, la stagione delle piogge monsonica è arrivata in ritardo, mandando a secco la semina del secondo raccolto (agosto e settembre) e affogando l’ultimo (ottobre).
Risultato: da settembre il prezzo delle cipolle in India è schizzato in aria, toccando punte di 200 rupie al chilo, creando i presupposti per una sommossa popolare.

Eventualità che il governo presieduto da Narendra Modi ha deciso di stroncare sul nascere prima introducendo a settembre un limite di stoccaggio al dettaglio (10 tonnellate per rivenditore) e all’ingrosso (50 tonnellate), poi bloccando completamente le esportazioni di cipolle «fino a data da destinarsi». La misura ha raggiunto risultati positivi nel tenere sotto controllo i prezzi durante la stagione delle feste in India, ma ha contestualmente mandato nel panico tutti i principali importatori di cipolle dell’area.

Nel mese di novembre, con le cipolle vendute al dettaglio a prezzi decuplicati, la prima ministra del Bangladesh Sheikh Hasina è stata costretta ad aviotrasportare cipolle da Cina, Myanmar, Turchia ed Egitto, così da tenere sotto controllo la furia popolare di milioni di bangladeshi. Precisando che anche lei, in solidarietà col resto dei conterranei, aveva tolto la cipolla dalla dieta ministeriale.

In Sri Lanka, dove il 93 per cento delle importazioni di cipolle arriva dall’India, hanno iniziato a piazzare ordini transoceanici da Cina, Egitto e addirittura dai Paesi Bassi, con tempi di spedizione che si aggirano intorno alle sei settimane: conveniva, comunque.

Infine c’è il Nepal, che con l’India condivide l’intero confine meridionale e che dall’India importa praticamente tutto.

Con file di camion di cipolle fermate alla dogana – ricalcando le modalità di embargo non dichiarato con cui Modi aveva messo in ginocchio il Nepal nel 2015 – inizialmente l’approvvigionamento è stato affidato alla buona volontà dei contrabbandieri. Che però, per motivi di margine e compensazione del rischio, hanno portato il prezzo medio delle cipolle fino a 250 rupie al chilo (quasi due euro, come un chilo di pollo).

A questo punto, come già successe nel 2015 per la benzina, è intervenuta la Cina, attivando l’impervia rotta himalayana per trasportare cipolle a Kathmandu.
Secondo i dati divulgati dalle autorità doganali nepalesi, nei mesi di novembre e dicembre il Nepal ha importato dalla Cina – passando per la dogana di Rasuwa Gadhi, al confine col Tibet – quasi 830 tonnellate di cipolle.

Nello stesso periodo dell’anno precedente, il computo totale dell’import di cipolle cinesi – che ai nepalesi non piacciono perché sono «grosse e filacciose», dice il Kathmandu Post – era pari a zero. Mentre scriviamo, nonostante ripetuti appelli dalle cancellerie limitrofe, il blocco delle esportazioni di cipolle indiane è ancora in vigore.

Secondo Business Standard, New Delhi sta valutando un ipotetico ritorno alla normalità, non appena inizieranno ad arrivare sul mercato le prime cipolle del nuovo raccolto di gennaio.

Ma le sorti politico-culinarie dell’Asia Meridionale sono destinate a rimanere alla mercé delle intemperie, almeno fin quando l’India non riuscirà a risolvere i problemi strutturali alla base della propria produzione di cipolle.

La catena del freddo inesistente, tanto per cominciare. E un sistema di stoccaggio desueto – tonnellate di bulbi tenute all’ombra tra i 25 e i 30 gradi – che fa marcire sistematicamente una cipolla su tre prima che raggiunga la rivendita al dettaglio.