«Dove devo firmare?». All’ex Opg occupato, il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, si china sulla petizione che chiede a Obama di annullare il decreto di sanzioni contro il Venezuela. Il presidente venezuelano, Nicolas Maduro, ha portato al VII vertice delle Americhe 14 milioni di firme, ma la raccolta continua in tutto il mondo fino alla fine di aprile. Poco distante, uno striscione raffigura Vittorio Arrigoni, il cooperante ucciso in Palestina. Dopo l’ex Asilo Filangieri e la Mensa occupata, l’ex Opg ha ospitato la tre giorni di dibattito della rete di solidarietà Caracas chiAma. Al tavolo, i ragazzi del movimento si alternano alle rappresentanze diplomatiche venezuelane e ai deputati, molto lontani dal protocollo: «Chavez e Bolivar venivano chiamati pazzi, come tutti quelli che vogliono cambiare il mondo, per questo siamo qui», dicono. Seguiamo il sindaco mentre visita la mostra «Cuba, que linda es Cuba», di Daniele D’Ari e Luca Sola.

Perché, sindaco, viene in un centro sociale occupato e firma a favore del Venezuela socialista?
Considero molto positivo che ci siano idee politiche, energie e creatività prodotte in modo autonomo dalle istituzioni. Stiamo lavorando per dare sicurezza a questa esperienza di occupazione e consolidarne l’autonomia. Ho voluto portare il mio saluto ai ragazzi, vedere la mostra e testimoniare la vicinanza con le esperienze di questa nuova America latina – dove sono stato molte volte – e che sta facendo un percorso importante, con cui abbiamo molte consonanze territoriali: principalmente sul piano della democrazia partecipativa, dello sviluppo di un’economia dal basso, sociale, del recupero dei territori, del potere diffuso e non verticistico che implica un cambio di rotta anche culturale, molto forte. Dal Venezuela, e prima ancora da Cuba, arriva la proposta di un modello economico politico sociale alternativo alla logica del profitto, basato sullo sviluppo dell’essere umano e non su quello del mercato. Dal Venezuela e dai paesi dell’Alba, emerge il forte protagonismo dei movimenti popolari che hanno lottato contro la privatizzazione dei servizi e dei beni comuni e hanno eletto governi in grado di rappresentarli. Un esempio per le nostre battaglie a difesa dei servizi pubblici e del bene comune. La maggioranza dei sindaci ha privatizzato tutto, noi abbiamo fatto l’operazione inversa, nonostante la crisi e pur in presenza di grandi difficoltà per quel che riguarda l’acqua, i rifiuti, il recupero del patrimonio immobiliare. Anche noi, come in Venezuela, abbiamo recuperato beni abbandonati da consegnare ai cittadini e alle esperienze di territorio. Anche noi rappresentiamo un laboratorio. Iniziative come queste non sono sporadiche, benché non vengano raccontate dai media tradizionali. Anche come esperienza politica siamo completamente fuori dal sistema tradizionale dei partiti, quindi siamo abbastanza avversati. Io, però, sono soddisfatto quando vedo crescere questa voglia di riappropriarsi dei beni della città in una logica di liberazione: molti di questi luoghi occupati erano all’abbandono per ignavia, inerzia, incapacità delle istituzioni o mancanza di risorse. Invece, puntando più sul capitale umano che su quello economico cerchiamo di appropriarci un po’ alla volta degli spazi della nostra città.

Il modello dell’Alba può essere una suggestione anche per l’Europa? Tsipras in Grecia e Podemos in Spagna ne hanno raccolto lo stimolo. I 5Stelle hanno organizzato un convegno per sostenere l’uscita dall’euro, ma con un impianto post-ideologico.
Io ho un dialogo abbastanza fitto da anni con molti amici dei 5S, ci sono punti di sinergie, di contatto, c’è la possibilità di incontrarsi su alcune battaglie condivisibili a difesa del territorio, ma non vedo una visione politica e una strategia complessiva. La stessa uscita dall’euro – che è un tema interessante, per carità, non sono un fanatico dell’euro – però non mi sembra il tema prioritario. Non è partendo dalla moneta che puoi risolvere tutti i problemi. Vedo più interessante la costruzione di processi dal basso, la costruzione di comunità. L’esempio che arriva dall’America latina è contrastato da chi detiene il potere economico e finanziario, dal Fondo Monetario internazionale, dai grandi poteri europei delle banche e dalle strutture dell’Unione europea e da quelli mondiali con sede negli Usa. E’ una goccia all’interno della globalizzazione capitalista, ma importante perché usa un linguaggio che non è minoranza nel mondo: quello della globalizzazione delle persone, dei diritti dell’umanità, dell’accoglienza, della fratellanza. Napoli in questo è abbastanza strategica perché, dal punto di vista geopolitico è la capitale del Mediterraneo, e in quanto città europea, ma proiettata verso il sud-est Europa, il Medioriente, il Nordafrica, può avere una dimensione internazionale che i napoletani devono abituarsi a scoprire. Noi siamo stati per 700 anni capitale, ce l’abbiamo dentro la contaminazione politica, culturale, anche religiosa e dobbiamo poter esprimere un punto di riferimento altro rispetto a un’Europa che – almeno a me – non piace ancora perché non produce solidarietà, unione, come dovrebbe essere, ma si proietta verso l’est Europa in una logica da Guerra fredda.

Questa nuova America latina suggerisce un indirizzo comune nella lotta contro quei poteri forti che usano anche l’arma della legge e dei tribunali per imporsi: dall’Argentina, all’Ecuador, al Venezuela. Anche sul tema della criminalità, si tende a risolvere le cause che la producono piuttosto che affidarsi alla «forca». Qual è l’analisi di un ex magistrato?
Sono temi interessanti e battaglie che ci riguardano, nei principi, nell’esempio e nel concreto. Sono un ex magistrato, e non per caso: anche perché già quando lo ero parlavo più di giustizia che di legalità. La legalità è anche intrisa di profonda illegalità, ingiustizia, violazioni della costituzione e dei diritti. Molte leggi, molti provvedimenti amministrativi, persino sentenze di adesso sono legali, ma profondamente intrise di ingiustizia. Bisogna invece riprendere il concetto di giustizia sociale e poi farlo funzionare con la legalità. Ho sempre pensato che la Costituzione fosse da attuare e non da brandire, principalmente sui temi dell’uguaglianza contemplati nell’articolo 3. Si parla molto di indipendenza della magistratura dai poteri alti, ma per quello c’è una garanzia costituzionale. Si parla poco, invece, dell’indipendenza della magistratura al suo interno: perché quando magistrati non indipendenti rispondono ai poteri alti e ti accoltellano, sei senza protezione. Ne ho fatto esperienza diretta quando, appena entrato in magistratura, ho cominciato a dire queste cose, e da allora una fetta considerevole del potere interno all’ordine giudiziario ha cominciato a mettere insieme una serie di azioni apparentemente legali ma profondamente ingiuste. Questo edificio è stato un manicomio criminale e prima un carcere. Si può partire da qui o dal 41 bis, la cifra di uno stato democratico si misura a partire dai diritti che dà a chi ha maggiore sofferenza, ma anche a chi ha sbagliato. Basta vedere le nostre carceri per rendersi conto che non siamo un paese profondamente e naturalmente democratico: perché è facile riconoscere diritti a chi in qualche modo li ha già, mentre bisogna riconoscerli a chi è in situazione di inferiorità e sofferenza. Ogni paese ha una storia diversa ma, nel mio piccolo, ho cercato di declinare questo tema diversamente fin dalla campagna elettorale del 2011: cercando un rapporto proficuo nel conflitto tra cittadini e istituzione. Penso alle parole di Pasolini: autonomia e indipendenza sono un elemento di forza perché non devi prendere ordini, ma anche di debolezza se non le trasformi in forza collettiva affinché il sistema non le schiacci. Questa è la città di Pino Daniele che cantava «Ie so’ pazzo». Siamo nell’ex Opg occupato. Con questo spirito occorre approfittare degli spazi e delle battaglie contro il sistema che, pur essendo molto forte dal punto di vista politico mediatico economico finanziario, possiamo battere.