Era molto diversa Santarcangelo quarant’anni fa o giù di lì, quando per la prima volta si arrivò nella cittadina romagnola sulle tracce di un festival che ancora portava l’intestazione del «teatro in piazza» ma che ne spostava con decisione il baricentro in direzione di una ricerca che allora aveva ancora un peso specifico preciso nella cultura nazionale, difficile da comprendere per chi non ha vissuto quei momenti. Quest’anno il festival compiva cinquant’anni e se ne annunciava un’edizione un po’ speciale, sotto la cura di Daniela Nicolò e Enrico Casagrande. Poi è successo quello che sappiamo. Quello che doveva essere il festival del cinquantenario e a un certo punto non si poteva più realizzare è diventato un evento concentrato in cinque giorni che dell’altro ha conservato il titolo, Futuro fantastico, ma ormai mutato di segno.
Del festival mancato resta una traccia nel catalogo stampato in un color fucsia assai scioccante che sembra una sfida alla capacità di decifrazione del più volenteroso lettore. Ritorna fra gli appunti recuperati l’immagine del volgersi indietro da un’auto in corsa già evocata dai due artisti nel loro Panorama di qualche anno fa, se la memoria non tradisce.

MARIA SCHNEIDER e Jack Nicholson in fuga in Professione reporter, il film di Antonioni. Lei che volge le spalle a quel che ha davanti a sé, mentre guarda la strada che si svolge diritta dietro la loro macchina. Che a noi tanto ricordava l’angelo della storia che avanza con il viso rivolto al passato di cui parlava Walter Benjamin, spinto verso il futuro dal vento del progresso. Un futuro fantastico?
Bisogna dire che sono stati bravi, i due artefici di Motus. Non era scontato. E non solo per la sopravenuta necessità di riformulare la dimensione delle proposte e di individuare nuovi spazi aperti alla fatidica distanza. Come l’orto degli ulivi dietro il convento dei Cappuccini, in cima al paese, dove Claudia Castellucci guidava il movimento ritmico dei sei giovanissimi interpreti de Il tradimento delle onde, al suono delle campane di un monastero francese; rabdomanti armati di un sottile bastone alla ricerca di una nascosta armonia. O il pratone al di là dei capannoni commerciali della periferia, dov’erano allestiti palcoscenici multipli che nel freddo della notte accoglievano in sequenza il Family affair del collettivo ZimmerFrei (ne ha parlato qui Anna de Manicor intervistata nei giorni scorsi da Cristina Piccino) o l’enigmatico Tiresias che la regista Giorgina Pi ha tratto da Hold your own, un testo della rapper londinese Kate Tempest (lo ha pubblicato E/O qualche tempo fa), con Gabriele Portoghese impegnato a sdoppiarsi fra un banco da dj set e lo spazio frontale dove inscenare le tante vite e tante sessualità del mitologico veggente, mentre incombono anche le voci litigiose di Zeus e Era, per dire forse che bisogna «restare se stessi» a dispetto di tutte le metamorfosi.

Si tornava in piazza per le Quattro lezioni sul corpo politico e la cura della distanza di Virgilio Sieni, titolo programmatico e d’occasione che però nasconde, dietro l’impianto seminariale che impegna da tempo il coreografo toscano nella «trasmissione del gesto», altrettanti corpo a corpo con una serie di opere pittoriche cruciali, da Piero della Francesca a Giorgione, da Caravaggio all’Annunciata di Antonello da Messina che sta in Palazzo Abatellis a Palermo – bisognerà riparlarne. Mentre nella sala consiliare del Comune si ritrovava la figura di Primo Levi ricostruita mimeticamente da Andrea Argentieri ne I sommersi e i salvati di Fanny & Alexander, ovvero Luigi De Angelis e Chiara Lagani, regista e drammaturga di un lavoro di testimonianza già avviato da tempo.
Insomma, come altre volte, un quadro assai composito, dall’immancabile teatro documentario alla conferenzina sugli stereotipi dell’immaginario pornografico (e dell’industria che vi è connessa) non priva di ammiccamenti. Non tutto ugualmente apprezzabile. Non è quello che conta. Anche perché Santarcangelo 2050, così ora ci accorgiamo che è stato ribattezzato il festival, ha in serbo a un certo punto la sorpresa capace di accontentare anche la latente voglia di teatro.

SI PARLA di Sorry, but I feel slightly disidentified…, il solo che il coreografo francese Benjamin Kahn (di Marsiglia, precisamente) ha realizzato per la performer Cherish Menzo, lei invece originaria del Suriname, lontano possedimento olandese diventato il più piccolo e assai multietnico stato dell’America latina. Compare in lontananza, nella luce crepuscolare del pratone. O meglio, ciò che all’inizio si percepisce è solo l’avanzare lento di una figura indistinta, imbacuccata in panni multicolori che va lentamente lasciando per strada. Quando arriva sulla bassa pedana bianca che funge da palco ha ancora il volto coperto, le mani avvolte in guanti bianchi che si muovono veloci in una danza immobile del corpo. Un poco per volta emerge la pelle nera di un corpo e un volto femminili.

STRETTA in un costume da bagno che del corpo sottolinea la giovanile prestanza atletica. La musica detta il ritmo, cioè il gioco delle multiple identità (o della sottrazione di un’identità) cui allude il titolo. O forse è la musica a piegarsi a questa ricerca di un’identità incerta, metamorfica, unificata da un eros spasmodico quanto volutamente ironizzato, troppo esibito quel tremito delle cosce che esplode poi in una risata. Sovrastata da un frastuono di interferenze quando il gesto si fa violento e rabbioso, dolcemente classicheggiante mentre si muove lentissima a terra, fino al silenzio in cui ruota su di sé. Bisogna allora concentrarsi sull’avverbio. Su quel leggermente che rende meno prescrittiva la necessità di darsi un’identità qualunque.
Si lascia Santarcangelo con un sentimento di gratitudine, con il senso di una comunità ritrovata che nessuna mera rassegna di spettacoli più o meno riusciti può dare. E non è solo merito delle tagliatelle di Zaghini.