Le dispute musicali fra me e mio fratello Pietro non cominciarono subito. I primi anni ognuno era preso da questioni impegnative come solfeggio, tecnica, intonazione e calli alle dita per lui. Quando diventammo un poco più esperti, fu naturale cominciare a suonare insieme, io al piano e lui al violino nel famoso corridoio che, non essendo riscaldato, ci costringeva in inverno a suonare con il cappotto. Non fu tuttavia quello a costituire per me il principale problema, ma il fatto che nacquero fra noi veri e propri scontri su intenzioni e interpretazioni musicali.

Ringalluzzito dal fatto di essere uno dei migliori della classe di musica, Pietro aveva assunto nei miei confronti una sorta di spirito di rivalsa che lo ricompensava da anni di rimproveri durante i quali, in famiglia, gli ero stata portata a esempio perché non davo problemi disciplinari e avevo ottimi voti. Mai fare una cosa del genere con due fratelli: si assegna a uno un ruolo che non ha nessuna voglia di assumersi, si fa sentire l’altro inferiore o inadeguato, si fomenta una rivalità che può portare a liti furibonde, cosa che puntualmente avvenne. Giacomino e Luciana non erano pedagogicamente perfetti, d’altra parte il genitore è il mestiere più difficile al mondo e loro l’hanno esercitato basandosi sull’intuito e la propria esperienza di infanzia che non era esattamente modellata sulle teorie di Jean Piaget o di Maria Montessori, avendo avuto lui un padre tiranno, lei due genitori sanguisughe. C’è da capirli, ciò non toglie che le rogne abbiamo dovute risolvercele io e Pietro per conto nostro.

Il concetto musicale di base che animava il Pietro pensiero era: «Il pezzo è per violino e pianoforte, quindi io sono il solista e tu accompagni. Io comando e tu mi segui». Figurarsi se io, fumina e orgogliosa, accettavo un’imposizione del genere e per di più da quella pulce. «Pezzo per violino e pianoforte – replicavo – non vuol dire che uno comanda e l’altro ubbidisce, ma che siamo un duo e dobbiamo andare d’accordo». «Ma qui vai troppo lenta». «C’è scritto Moderato». «Ma a me piace più veloce. E poi sbagli gli accenti». «Non è vero». «Ho ragione io e fai come dico io». «Allora accompagnati da solo». «Stupida!»

Sentendoci, la Luciana accorreva e, non potendo entrare nel merito tecnico della questione, imponeva a mio fratello di calmarsi e a me di tornare alla tastiera. Io eseguivo sbuffando, lui si vendicava trasformando il Moderato in Allegro e il povero autore ne usciva strapazzato e malconcio. Non sempre andava così, ma la verità è che, dentro di me, sapevo che lui aveva ragione non tanto sulla sua sballata teoria del chi comanda e chi segue, ma nella pratica, perché sentivo che era molto più bravo e dotato di me. La mia nascita musicale era avvenuta sotto l’arcigna stella de maestro Parizzi, la sua era sbocciata con bravi docenti; io ero confinata in tristi lezioni private, lui si muoveva nel fecondo mondo del conservatorio; io studiavo uno strumento che mi inchiodava a un corridoio, lui con il violino poteva andare dove voleva; io suonavo prevalentemente da sola, lui sarebbe presto entrato anche in orchestra; il pianoforte non era stato la mia prima scelta, lui aveva trovato il suo destino. Fare musica fin da piccoli è come ricevere ogni giorno lezioni di vita perché gli strumenti sono impietosi, ti rimandano indietro la verità e, se sei disposto a guardarla in faccia, sei obbligato a farti un sacco di domande. Hai talento? Studi bene? Studi abbastanza? Hai sbagliato insegnante? Ti piace davvero quello che fai o sei solo velleitario? E poi ti sottopone a un perenne confronto con gli altri e a dover riconoscere che, al mondo, può sempre esserci qualcuno più bravo di te, che non serve a niente invidiare, ma magari imitare.

Dopo le scuole medie entrai anch’io in conservatorio, ma mentre mi dividevo fra liceo classico e lezioni di piano, Pietro veleggiava con il suo violino sempre più lontano finché, a soli 17 anni fu ammesso al corso estivo della Giovane Orchestra Italiana diretta da Piero Bellugi e Bruno Bartoletti, l’anno dopo da Franco Ferrara. Significava soggiornare a Siena per quasi tutta l’estate. Mentre lui folleggiava in Toscana, io trascorsi quelle estati fra esami di maturità, zanzare, pianoforte e un lavoro nelle colonie che al ritorno mi costò il doppio di studio, perché da uno strumento non ci si può separare, altrimenti si perdono tecnica, agilità e tocco. Sognavo di accompagnarmi anch’io, come Pietro, a uno strumento portabile. Mi piaceva il violoncello. Meditai di cambiare. Significava ricominciare da capo e per di più a 18 anni, un’età che strumentalmente è da vecchi. Non ne ebbi il coraggio.

Nel frattempo, a casa, era nato un altro talento musicale, quello di Augusto, il terzogenito. Un giorno, aveva sette anni, passa con la Luciana davanti al teatro Magnani di Fidenza, sente suonare e dice: «Entriamo?». Dentro c’era la banda che provava. Si avvicina al maestro e gli dice che vorrebbe imparare uno strumento. Quello gli risponde «Va bene. Quale ti piace?». «Quello», disse indicando un saxofono. Siccome il sax contralto era più alto di lui, per cominciare gli diedero un soprano. Fu amore a prima vista. Lo suonava tutti i pomeriggi e per ore, io mi dividevo fra versioni di latino, greco, Mozart e Beethoven, Pietro si chiudeva in qualche altra stanza con il violino, il cane Boby, uno dei tanti bastardini che hanno abitato con noi, si univa al gruppo a modo suo. Come è notorio, il saxofono produce ultrasuoni che noi umani non percepiamo, ma a cui i cani sono sensibilissimi. Neanche a farlo apposta, Boby si piazzava proprio vicino ad Augusto e, sentendo il sax trapanargli il cervello, cominciava a ululare “Uuuuuu, Uuuuuuu, Uuuuuu”, neanche fosse tornato lupo. La Luciana, esasperata, usciva dalla cucina e gridava ad Augusto «Mo smettila che mi fai diventare matto il cane». E quello «Non ci penso neanche. Manda fuori Boby».

Al caos di spartiti, vocabolari, pastelli, quaderni di scuola elementare, pianoforte, violino, corde, pece, archetti, ance, un giorno si aggiunsero la viola e un banco da falegname per liuteria. A chi si dovevano queste new entry? A Pietro, ovviamente. Le cose andarono così. Siccome aveva saputo che al conservatorio di Parma, allora diretto dal raffinatissimo Piero Guarino, avevano aperto una scuola di liuteria tenuta da Renato Scrollavezza, vi si era iscritto. L’ estate successiva, a Siena, suonando in un concerto il cui solista era Piero Farulli, si era innamorato della viola, ma non voleva soltanto cambiare strumento, voleva proprio studiare con Farulli che aveva da poco lasciato il Quartetto Italiano e fondato la scuola di Fiesole. La settimana dopo il concerto, sfacciato come un piazzista, si presentò a villa La Torraccia dove Farulli stava tenendo lezione. Si affacciò alla porta e disse al grande violista che avrebbe voluto diventare suo allievo. L’altro, burberissimo, rispose: «Io i miei allievi me li scelgo da solo». Pietro: «Sono qui per farmi scegliere». «Se è così, torna la settimana prossima con Campagnoli, Kreutzer e la seconda Suite di Bach». Pietro non osò dirgli che non aveva nemmeno la viola e rispose «Va bene». Tornato a casa, cominciò a cercare come un forsennato qualcuno che gli prestasse uno strumento e si buttò a studiare. La settimana seguente, dopo la lezione, Farulli gli disse «Penso che potremo andare d’accordo», e questo dimostra come la vita è di chi osa osare.

2. continua