Una dichiarazione di fede nel cinema così sentita non la vedevamo da tempo, ma questo fa A Flickering Truth della neozelandese Pietra Brettkelly, raccontando il lavoro di recupero della cineteca afgana. «Flickering» è l’intermittenza della pellicola nel proiettore e subito si percepisce quell’odore dolciastro o acidulo che hanno le pellicole sugli scaffali di una cineteca, in questo caso un edificio moderno, ma in rovina, incuneato tra ambasciata americana e complesso NATO a Kabul – in pratica come essere in prima linea. Il film intreccia più storie: da quelle di Kabul oggi, tra un’apparente normalizzazione e un attacco kamikaze, allo sforzo del nuovo direttore Ibrahim Arify, cineasta afgano tornato dopo un lungo esilio in Germania, di rimettere in piedi l’archivio, recuperando dal vecchio e ingobbito Isaaq la chiave della cineteca, alla storia del cinema afgano stesso, dal primo film del 1927 (un viaggio all’estero del sovrano di allora, famoso per la sua voracità sessuale) alla trionfale visita in America di re e regina, accolti da un Kennedy affabile, al primo film di finzione degli anni Trenta, Amore e Amicizia, fino all’inatteso happy ending del furgone che porta i film recuperati nelle lande dove la pressione talebana è meno diretta.

Si organizza persino un festival che si intitola «Siamo chi non siamo» perché, come spiega Arify, gli afgani «non sono arabi, non sono russi e non sono americani» pur non nascondendosi che alcuni dei caratteri di questo popolo non producono né efficienza né capacità reattiva. Anzi con amarezza si scopre che un missile caduto nel giardino della cineteca è stato poi rubato, probabilmente per recuperarne il potenziale offensivo e venderlo ai pachistani – e provvedere quindi alla propria distruzione. «Ma se gli afgani lo volessero davvero, in una settimana si libererebbero dei talebani».

L’attenzione si concentra comunque sul compito quasi impossibile di recuperare pellicole gettate a terra e divorate da insetti schifosi o chiuse in scatole di latta arrugginite e senza etichette. Per far questo il nuovo direttore deve lottare con operai che mercanteggiano allo sfinimento mansioni e salari, personale incompetente che non sa neppure ordinare dei libri in uno scaffale, e soprattutto capire cosa sono riusciti a salvare i devoti cinetecari che, all’arrivo dei talebani, avevano nascosto alcuni materiali in un ufficio, dissimulando la porta con compensato e poster. Infatti la reazione dei talebani quando mettevano le mani su una pellicola, come dice uno di questi impiegati, era «di ucciderla, facendola sanguinare dentro il terreno». Tra questi film recuperati cinegiornali o documentari di vari momenti della storia afgana, ma anche immagini di un Arify agli esordi, che interpreta il cantante pop in un film in bianco e nero quando le ragazze afgane giravano con la minigonna e la cofana «alla gatta» tipica degli anni Sessanta.

Nel seguire i lavori di recupero e gli spostamenti relativi, il film ruba immagini documentarie davvero preziose sulla situazione in Afganistan oggi, dai mercati al traffico alla gente nelle strade, ma anche la tensione costante, al punto che, a ridosso delle elezioni, Arify è costretto a partire. Alla fine però questi devoti archivisti che puliscono con lo scottex pellicole sbranate dal tempo, dall’incuria e da guerre continue, hanno rimesso in piedi, almeno in parte, la cineteca. Partito Arify non c’è più la sua voce fuori campo- non sempre tenera con i suoi connazionali- ma le immagini – il cinema- parla da solo, mostrando come i suoi collaboratori si sono organizzati per portare il patrimonio culturale che hanno salvato in giro per villaggi sperduti, presentando questi film a persone che il cinema non l’hanno visto mai e lo scoprono con gli occhi sgranati dei bambini ma anche di giovanotti e anziani, e di bambine che con un gesto automatico, vedendosi riprese, si coprono il volto col velo.