Le immagini più sinistre della iconografia trumpiana sono sempre state quelle che lo ritraggono attorniato da poliziotti raggianti. Come attestano i selfie scattati metodicamente durante la campagna elettorale con gli agenti di ogni città visitata, i poliziotti sono da sempre stati una componente fondamentale del suo zoccolo duro e tangibile rappresntazione delle tendenze più autoritarie del sovrano presidente.

ORA, MENTRE WASHINGTON brucia, Trump sembra aver scelto il modello della tournée permanente, riempiendo arene e palasport di supporter (o eventualmente boyscout) per discorsi che elencano i suoi immaginari trionfi e sono pretesti per celebratori bagni di folla nella provincia che tuttora lo sostiene.

Venerdì scorso a Long Island la folla era composta da agenti in alta uniforme e l’argomento del giorno era il «debellamento delle gang criminali». Un intervento formulato sia come dichiarazione di guerra e mission accomplished e soprattutto apologia dell’aggressività come postura politica. Al solito i contenuti hanno lasciato il posto all’esibizione performativa dell’ethos trumpiano – in questo caso sconfinata in aperto incitamento alla violenza e all’abuso di potere.

Trump ha ripetutamente elogiato le forze dell’ordine, gli uomini caratterizzati come «ruvidi eroi», impossibilitati a fare il loro lavoro da «patetici sindaci» (come Bill De Blasio, sindaco di New York schernito fra gli applausi degli agenti della sua città).

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Un agente della squadra anti gang di Fresno esegue un arresto (foto Zuma Press)

 

È STATO IL PRETESTO per una geremiade contro le gang ispaniche composte di «animali assetati di sangue» che avrebbero cinto d’assedio le città americane. Trump ha enumerato gli efferati se pur non meglio precisati delitti della gang salvadoregna Mara Salvatrucha. «Hanno macellato 17 giovani ragazze proprio qui a Long Island. Rapiscono e violentano le nostre bambine… hanno tarsformato i parchi gioco in mattatoi grondanti sangue…». Al termine dell’apocalittico quadro la sua ineluttabile conclusione: «Ci toccherà liberare le nostre città come nel vecchio West».

MUSICA apparentemente alle orecchie dei poliziotti riuniti che hanno osannato il dileggio delle «insensate» norme di correttezza politica. «A me piace vederli caricati sui furgoni cellulari», ha incitato Trump. «Scaraventateli dentro! È inutile andare tanto per il sottile», ha esortato i membri delle forze di polizia che negli Usa ogni anno fanno oltre 1000 vittime civili. «Perché gli proteggete la testa quando li fate entrare nelle volanti? Lasciate stare – sono animali». Il segnale per il tifo da stadio scandito da cori di «Vogliamo Trump».

IL FEBBRICITANTE AFFRESCO distopico ha fatto leva sulle fobie più radicate dei sostenitori, la guerra alle gang ispaniche è codice di un razzismo motivante sin dalla prim’ora, quando Trump scese in campo per salvare l’America dai «violentatori messicani».

Lo spauracchio del giorno è invece la famigerata banda Ms13. Trump ne ha imputato l’ascesa al lassismo della «precedente amministrazione» accusando Obama di aver dato il benvenuto all’ondata di immigrati clandestini che ne avrebbero ingrossato le fila. Una narrazione del tutto divorziata dalla realtà in cui la gang giovanile è nata sulle strade di Los Angeles negli anni 80, nutrita dai profughi centroamericani arrivati in fuga dalla guerra sporca di Reagan in Nicaragua ed El Salvador. Nel degrado urbano dei ghetti e barrios californiani la banda dedita a spaccio e piccola criminalità trova terreno fertile e si distingue presto per violenza ed efferattezza. Le amministrazioni Clinton e Bush usano la deportazione per combatterla: migliaia di giovani pregiudicati vengono rispediti soprattutto in El Salvador. Una popolazione di rimpatriati emarginati e disadattati che nel paese d’origine danno vita ad un rete capillare di malavita organizzata e a una successiva diaspora criminale che ha l’effetto di esportare filiali della gang in molte altre città americane e successivamente in Europa.

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Migrante scala la barriera Messico-Usa a Ciudad Juarez (foto Reuters)

 

LA NARRAZIONE ALTERNATIVA trumpiana travisa questo clamoroso fallimento politico (anche questo originato da una guerra «giusta») in una questione di ordine pubblico e la solita difesa dagli stranieri . La realtà affiora invece in un altra cronaca recente – quella degli immigrati clandestini ritrovati soffocati in una autotreno sigillato lunedi in Texas.

Fra i morti in quel forno parcheggiato fuori di un supermercato di San Antonio c’era Frank Giuseppe Fuentes di 19 anni. L’adolescente era nato in Guatemala ma giunto all’età di due anni in Virginia dove era cresciuto e aveva studiato. Mai messo in regola, era uno del milione di giovani amnistiati da Obama. A marzo era stato arrestato per una rissa, denunciato come membro di una gang e deportato secondo le nuove regole di Trump, nel paese di «origine».

NEI MESSAGGI SOCIAL RICEVUTI dagli amici si lamentava del paese alieno in cui si era improvvisamente trovato e progettava di tornare a studiare all’università e ricongiungersi coi genitori – quelli che lo hanno rivisto solo all’obitorio dopo la morte atroce. Ultima vittima della crociata a difesa delle frontiere e contro i «sanguinari animali» di cui si vanta Trump.