Editoriale

Il Referendum plebiscito

Riforme La stagione del populismo referendario... Il premier vanta il «capolavoro parlamentare», celebra l’uomo solo al comando e tace le fragilità di un sistema drogato dal maggioritario

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 30 dicembre 2015

Se Renzi facesse di mestiere il bancario, venderebbe ai risparmiatori ignari i titoli spazzatura che hanno affondato quattro banche, note – grazie a papà Boschi – a tutti gli italiani. Nessuno meglio di lui porge argomenti privi di pregio, mentre tace o occulta censure e rischi. Così è stato per le riforme nel discorso di fine anno. Toni trionfalistici, in specie per l’Italicum, vero «capolavoro parlamentare».

E certo di capolavoro si tratta, se tale è il bavaglio alle opposizioni, l’uso spregiudicato in chiave di dittatura di maggioranza di norme e regolamenti, le ripetute minacce di “tutti a casa” nell’ipotesi di un fallimento, e persino qualche schiaffo alle presidenze delle assemblee, ancorché timide e prone ai voleri governativi.

Cosa è mancato nel discorso del premier? Tutto il resto. Una minima serietà avrebbe richiesto qualche argomento sul dissenso, e in specie sulla censura di evidenti assonanze tra l’Italicum e il sistema dichiarato illegittimo con la sentenza 1/2014 della Corte costituzionale. Ovvero sull’accusa di concentrazione del potere e riduzione degli spazi di democrazia nella Costituzione che si prefigura, o ancora di sinergia perversa con le altre riforme, dalla legge elettorale alla pubblica amministrazione, alla scuola, alla Rai.

Cosa abbiamo, invece? L’annuncio ufficiale di una personale strategia plebiscitaria del premier. Il primo atto sarà nell’ottobre 2016 il referendum sulla revisione della Costituzione. Renzi ci informa che l’oggetto non sarà il contenuto della riforma e la qualità della democrazia che da essa viene, ma la conclusione della sua esperienza politica, e dunque crisi e nuove elezioni in caso di sconfitta. E certo sa che seguiranno nel 2017 altri referendum, abrogativi: scuola, Jobs Act, Italicum. È facile pensare che li veda come una ininterrotta stagione di populismo referendario, utile a consolidare il rapporto plebiscitario tra lui e gli elettori.

È già funzionale a questo l’autocelebrazione: con l’Italicum non finiremo come la Spagna, e saremo in Europa un paese campione per stabilità. Meno male che tra i paesi leader dell’Unione non lo segue proprio nessuno. Se affinità elettiva vediamo, è con qualche giovane democrazia – si fa per dire – dell’Est europeo. Per la Spagna, Renzi non dovrebbe chiedersi quale e quanta instabilità verrà dalla necessità di coalizioni. Piuttosto, la domanda è: quale stabilità verrebbe mai garantita se uno solo dei contendenti fosse stato alloggiato nelle stanze del potere grazie ad artifici elettorali, ad esclusione di tutti gli altri? Come si governa un paese che ha espresso un dissenso largamente maggioritario verso chi occupa pro tempore le poltrone dell’esecutivo?

Questo è il nostro problema con l’Italicum. Un sistema già tripolare – e forse quadripolare, se la sinistra ritroverà identità, coesione, leadership – costretto dall’imbuto del ballottaggio nella semplificazione forzosa dell’uomo e del partito soli al comando. Il punto non è la stabilità, ma la duratura capacità di governo. Che si misura giorno per giorno nei cinque anni che seguono la sera del voto. E non viene da un parlamento non rappresentativo, dall’ascolto estemporaneo, dai blog e mailing list di governo, e ancor meno dalle comparsate televisive.

Con Renzi una novità c’è davvero. Dai partiti a vocazione maggioritaria, un tempo popolarissimi anche presso una certa sinistra, passiamo oggi ai governi a vocazione minoritaria. Governi volutamente minoritari, perché fondati su uno scambio consapevole tra consensi reali che in un modello proporzionale condurrebbero a esiti di coalizione, e numeri parlamentari posticci e gonfiati da artifici maggioritari che non danno legittimazione sostanziale e forza politica a chi governa.

Il totem della vittoria artificialmente certa la sera del voto si accompagna di fatto al fatale declino dei consensi nel corso del mandato. È un lento morire, per le insoddisfazioni inevitabili e cumulative sulle politiche del governo. I sondaggi di popolarità decrescente lo segnalano in ogni paese.
Un tempo, nella prima repubblica dei tanti governicchi, sarebbe stato contrastato con un rimpasto, in un parlamento ampiamente rappresentativo e ad opera di partiti saldamente radicati. Ma oggi è l’assioma di partenza che lo impedisce. Come si fa a cambiare il volto di un esecutivo che si vuole gratificato direttamente dal voto popolare e da un megapremio di maggioranza?

Certo il tema non è a misura di tweet, e quindi sfugge alla dimensione politica del premier. Ma rende plausibile una sua affermazione: che il turno a Palazzo Chigi sarà il suo ultimo mandato pubblico. Riteniamo probabile che gli italiani lo collocheranno a riposo senza onori. Ma dobbiamo evitare – anche con i referendum – che nel frattempo faccia troppi danni. Ed è ferale il dubbio che sia più saggio di lui Berlusconi, che – come Renzi ricorda – si lamentava di dover governare in coalizione, ma poi ha votato contro l’Italicum. Magari alla fine ha capito.

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