Il libro di Maurizio Ferrera La società del Quinto Stato (Laterza, pp.144, euro 16) si inserisce in un dibattito più che secolare. L’autore ritiene di avere identificato questo concetto nel «precariato» considerato equivalente a uno «strato sociale» che si aggiunge a quelli già definiti del clero, borghesia, lavoratori e rendita.
Questo «quinto stato» raccoglierebbe giovani precari, partite Iva e immigrati. È difficile tuttavia che soggetti così eterogenei condividano in maggioranza l’appartenenza a un gruppo («strato sociale») prodotto dalla mancanza di un contratto di lavoro subordinato (il «precariato»). In realtà, il precariato attraversa tanto il terzo stato della borghesia, quanto il quarto stato dei lavoratori. E, rispetto alla platea scelta da Ferrera, tra gli immigrati possono esistere lavoratori a tempo indeterminato e persone che accedono molto difficilmente a un lavoro, sia pure precario. È anche difficile definire il lavoro autonomo delle partite Iva proletarizzate negli stessi termini del lavoro dei precari privi di un contratto di lavoro. Svolgendo attività diverse, i freelance non hanno un contratto di lavoro. Non perché non gli sia riconosciuto, ma perché hanno la partita Iva.

È SENZ’ALTRO POSSIBILE immaginare che un precario diventi autonomo, e viceversa, senza trascurare la possibilità che la stessa persona possa svolgere lavori di tipologie diverse allo stesso tempo, nel corso della sua vita. Ma se restiamo alla divisione del lavoro attuale è difficile che un lavoratore autonomo possa identificarsi in un contratto di lavoro che non lo riguarda, né preoccuparsi del fatto che non lo possiede. Semmai può maledire una società costruita, almeno idealmente, su un modello di cittadinanza che lo esclude perché non rientra tra i formalmente «garantiti».
C’è anche il rischio di considerare tutti gli autonomi come «false partite Iva», lavoratori subordinati mascherati da partita Iva. La questione esiste ma, va detto una volta per tutte, anche a sinistra, che questo non è il problema principale del lavoro autonomo non imprenditoriale. Parliamo dei bassi compensi, di un sistema previdenziale vergognoso, dell’inesistenza di garanzie e di un welfare, dei problemi della formazione o dell’accesso alle professioni. Una volta affrontati si capirebbe come il problema del reddito, della previdenza e delle tutele universali della persona, siano comuni a tutti, al di là del lavoro svolto.
Il problema dell’identificazione del quinto stato, e della confusione con uno dei suoi aspetti, riscontrato in questo libro di Ferrera non è nuovo. È emerso nel 1960 quando Salvatore Valitutti identificò il quinto stato in una categoria della stratificazione sociale: i giovani. Ferdinando Camon scrisse un romanzo omonimo sui contadini, mentre nel 1968 Wolfgang Kraus lo identificò con i lavoratori dei servizi del terziario avanzato. Poi fu il turno dei lavoratori della conoscenza (il «cognitariato») e dei freelance a partita Iva.
Non è certo escluso che questi gruppi facciano parte del quinto stato. Il punto è che, insieme ad altri, condividono una condizione socio-politica della forza lavoro non riducibile al possesso di un contratto di lavoro, né all’appartenenza a un ceto o a una nazionalità. Il punto di vista va dunque rovesciato: il quinto stato non è la condizione degli esclusi da un contratto sociale ricavato su un modello di cittadinanza che ha attribuito la primazia al lavoro salariato dei nativi in uno Stato. Il quinto stato è invece l’attestazione della crisi irreversibile di questo modello che impedisce di pensare l’esistenza di strati sociali compatti e uniformi come la «borghesia» o i «lavoratori». Sempre che siano mai stati tali.

IL QUINTO STATO, dunque, è la forma assunta dalla crisi dagli stati precedenti, non è un altro gruppo che si aggiunge alla piramide sociale esistente. Questa condizione attraversa le categorie, ma non è assimilabile a uno dei loro strati. È incollocabile nelle gerarchie, anche se è presente tra le loro parti. Accomuna i cittadini apolidi in patria e gli stranieri extraterritoriali in uno Stato. Insieme formano la comunità dei senza comunità, quella che possiede solo la sua forza lavoro: la facoltà di creare tutti i valori d’uso della vita, prima ancora del capitale.
Parlare oggi di quinto stato significa riscoprire una storia del concetto di «classe». La genealogi realizzata già nel 2011 nella Furia dei cervelli, e nel 2013 nel Quinto stato (e la ricerca continua), può riservare sorprese a chi, marxianamente, ha seguito il consiglio dello storico inglese Edward Thompson il quale, in Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, scrisse: «la classe operaia è plurale». All’origine si parla di classi operaie. Oggi, più che mai, parlare di quinto stato significa evidenziare la molteplicità della forza lavoro e la sua irriducibilità alle categorie del lavoro produttivo del capitale.
Questa storia inizia con l’epica rivolta delle «classi pericolose» contro le servitù del capitalismo industriale. Erano i lavoratori salariati e indipendenti, insubordinati al lavoro sotto padrone, che non si rassegnavano alla vita della borghesia emergente e immaginavano il mondo alla rovescia, come già fecero i movimenti rivoluzionari del Seicento inglese, gli irriducibili della Rivoluzione francese e dei proletari dell’Ottocento raccontati da Jacques Rancière nel libro La nuit des prolétaires. Questa è la storia dell’altro movimento operaio raccontata da Karl-Heinz Roth, e da Sergio Bologna. Non va dimenticato che il quinto stato è stato associato all’emancipazione delle donne e alla lotta contro il patriarcato, la violenza maschile e il capitalismo già nel 1880. Lo scrisse il deputato socialista Salvatore Morelli che anticipò, con i suoi strumenti, la potenza dei movimenti femministi.
Il quinto stato è una categoria della liberazione dove il lavoro non è anteposto ai conflitti sulla razza, il sesso o l’ambiente. Usarla significa prospettare un «divenire co-rivoluzionario» (David Harvey) dei differenti soggetti dell’oppressione.

SULLA STRADA di questa rivoluzione delle mentalità sono già avviati i femminismi intersezionali, l’ecologia politica, il marxismo. Ciò che a questo dibattito può dare la ricerca sul quinto stato è l’idea che la storia della «classe» non è il prodotto della condivisione della precarietà, non è la somma delle categorie del lavoro subordinato atipico o la conseguenza del possesso di un contratto di lavoro. La «classe» emerge quando la forza lavoro conquista un’autonomia politica dalla divisione del lavoro e dai rapporti di potere che dividono la società in governati e governanti, proprietari e non proprietari.
Può non riuscirci, com’è evidente al momento, ma ciò non toglie che il problema di chi lavora e non lavora non è quello di chiedere di integrarsi in un mondo dove non ha spazio, ma quello di rovesciare questo mondo in cui viviamo in esilio. Da cosa? Dalla vita.