La decisione di Trump di uscire dall’accordo di Parigi ha dato il via ad una serie di reazioni a catena non solo fuori gli Stati Uniti, ma soprattutto al loro interno. Trump ha motivato la decisione in quanto l’accordo sul clima era «svantaggioso per l’economia e l’industria statunitense», ma immediatamente le reazioni sono arrivate proprio da quella sfera: praticamente tutta la Silicon Valley e Microsoft hanno espresso pubblicamente il loro parere contrario a questa defezione, così come Elon Musk, Ceo di Tesla, che sul futuro sostenibile ha costruito un impero grazie alla produzione di auto e energia elettrica, e che si è dimesso dal gruppo di lavoro alla Casa Bianca di cui faceva parte, così come ha fatto Robert Iger, Ceo della Disney, anche lui contrario al provvedimento di Trump.

MA L’OPPOSIZIONE più solida e destabilizzante arriva da più di 60 sindaci e governatori che hanno dichiarato che gli Stati e le città che amministrano non seguiranno il presidente ma resteranno fedeli agli accordi di Parigi. New York, città e Stato, Pittsburgh, il Minnesota, Boston sono stati i primi a cominciare questo ammutinamento ma la lista è destinata ad allungarsi; il governatore della California, Jerry Brown ha detto di voler organizzare un intero movimento contro il presidente e con gli Stati di New York e Washington ha annunciato un’alleanza formale per il clima e a mantenere l’impegno di seguire le decisioni della COP21; nella notte i palazzi governativi di molte città, incluse New York e Boston sono stati illuminati di verde.

LO STESSO REX TILLERSON, attuale Segretario di Stato, che già aveva invitato Trump a non lasciare l’accordo sul clima di Parigi, venerdì, parlando ai giornalisti prima di un incontro con il ministro degli esteri brasiliano Aloysio Nunes Ferreira, ha dichiarato che gli Usa continueranno a ridurre le proprie emissioni di gas a effetto serra, nonostante la decisione di Trump. Il presidente è isolato, internazionalmente e nel Paese. E da questa posizione, poco prima di mezzanotte tra giovedì e venerdì ha fatto un’altra mossa controversa, chiedendo alla Corte Suprema di reintrodurre il bando sull’ingresso negli Stati Uniti da alcuni Paesi a maggioranza musulmana. Bando finora puntualmente bloccato dalle corti minori.

ANCHE QUI CI SI RITROVA davanti a uno scenario di ’Trump contro tutti’, o quanto meno mezza America. Gli Stati e città santuario che si sono impegnati a proteggere i propri cittadini sono radicalmente contrari al MuslimBan; nelle stesse ore in cui Trump si appellava alla Corte Suprema, Bill De Blasio, sindaco di New York, ospitava la comunità musulmana per una grande cena per il Ramadan nella sua residenza ufficiale alla Gracie Mansion.

QUESTI DUE APPROCCI sono inconciliabili. Se da una parte c’è una volontà di inclusione, dall’altra la chiusura riguarda tutti, difatti oltre alla richiesta di riabilitare il famigerato MuslimBan, Trump ha effettuato l’annunciato giro di vite sui visti di ingresso negli Usa, che riguarda i richiedenti di qualunque Paese che, a discrezione delle autorità consolari, dovranno rispondere a nuove domande aggiuntive, nel caso siano ritenute necessarie verifiche sull’effettiva identità del richiedente. Le nuove domande riguardano la gestione dei social nell’arco degli ultimi cinque anni e informazioni sugli ultimi 15 anni, inclusi numeri di telefono, indirizzi e-mail, numeri di passaporto precedenti, storico dei lavori e dati relativi ai viaggi effettuati.

Comporterà come effetto lungaggini nel concedere visti e sarà pressoché impossibile per molti ricordare tutti i nickname​ usati sui social network. Questo tipo di domande rischia di portare al respingimento di richieste di cittadini per errori innocenti o dimenticanze, inoltre le nuove domande garantiscono un potere arbitrario alle autorità consolari per stabilire chi può ottenere un visto o meno, come ha denunciato Babak Yousefzadeh, presidente dell’ordine degli avvocati irano-americani.

IL NUOVO QUESTIONARIO è stato approvato dall’Office of Management and Budget, l’ufficio per la gestione e il bilancio. Per Politico le autorità Usa ad aprile hanno già rilasciato quasi il 20% di visti in meno a cittadini provenienti da una cinquantina di Paesi arabi o islamici, rispetto allo stesso periodo del 2016, e analizzando i dati di solo i Paesi arabi, la diminuzione dei visti di ingresso arriva quasi al 30%.