Alzare la posta. Proprio quando il governo catalano è al massimo della debolezza, senza maggioranza (gli assemblearisti della Cup sono ormai all’opposizione), con una base sempre più spaccata su come mettere in piedi una «repubblica catalana» e senza un orizzonte politico chiaro, il president Quim Torra ieri ha minacciato il presidente spagnolo Sánchez di far cadere il suo governo se non mette sul tavolo una proposta di referendum accordato entro novembre.

LO HA FATTO DAL PULPITO del Parlament catalano, finalmente riunito dopo più di due mesi e mezzo di blocco perché i due partiti di maggioranza, PdCat e Esquerra, non si mettevano d’accordo sul da farsi, fra tentazioni assolutiste e un approccio pragmatico. I voti del PdCat ed Esquerra sono essenziali a Madrid per approvare il budget dei socialisti. Il discorso di Torra è stato grandiloquente («se la sentenza è di condanna, la Catalogna si sarà guadagnata il diritto di essere uno stato»), con qualche strizzatina d’occhio alle ali estreme («non siamo qui per amministrare un’autonomia, né per ricrearci con parole vuote, ma per fare la repubblica catalana»), ultimatum a Madrid («la pazienza dei catalani non è infinita, il margine di Sánchez è finito») e velate minacce di sovvertire l’ordine pubblico («pensate che se vengono condannati i prigionieri politici il popolo non si ribellerà?»). Ha anche assicurato che il criticatissimo ministro degli interni Miquel Buch, attaccato dalla Cup per le cariche e dai sindacati dei Mossos per non aver predisposto abbastanza agenti per le manifestazioni di lunedì (finite con altre cariche), darà spiegazioni nella camera catalana.

POCO PRIMA DEL DISCORSO di Torra, in un doppio salto mortale retorico, il parlamento si è rifiutato di accettare l’ordinanza del giudice Llarena che sospendeva dalle loro funzioni i 6 deputati incriminati per sedizione (fra cui l’ex presidente Puigdemont e l’ex vicepresidente Junqueras), ma ha anche votato di nominare dei sostituti temporanei, come chiedeva il giudice e già avviene.

I 6 DEPUTATI (5 in carcere e Puigdemont in Belgio) non ricevono lo stipendio già da luglio, data dell’ordinanza. La tensione nel mondo indipendentista è alle stelle. «Una cosa è fare pressione [come aveva invitato a fare Torra lunedì, ndr] e un conto è essere violento”, ha detto la portavoce dell’esecutivo catalano Elsa Artadi. Anche il direttore dei Mossos ha gettato la croce sui «gruppi di radicali» che hanno messo «in pericolo la sicurezza e l’integrità del Parlament». La tenuta del governo catalano e del sempre più sfilacciato fronte indipendentista dipenderà tutta dalla reazione di Madrid. La portavoce Isabel Celaá ha già risposto: «Autonomia sì, indipendenza no. In Catalogna ci sono troppi gesti e poca responsabilità».