A pochi giorni dalle elezioni spagnole, dai sondaggi emerge un quadro uniforme: il primo partito dovrebbe essere ancora il PP di Rajoy (28-30%), la coalizione di Podemos e Izquierda Unida (Unidos Podemos) sarebbe seconda (24-26%), il Psoe terzo (20-22%), Ciudadanos quarto (13-15%). Uno dei temi più dibattuti in campagna è quello delle alleanze post-elettorali. Con chi si alleerebbero i diversi partiti? Si assiste a un paradosso.

Tutti cercano di sedurre il partito socialista. Il PP gli propone una grande coalizione, Unidos Podemos un governo progressista, Ciudadanos un governo riformista. Tutti lo vogliono, ma il Psoe si nega. Non esprime preferenze. Non può farlo. Le sue divisioni interne e la necessità di mobilitare la base per resistere all’«assalto» di Unidos Podemos lo rendono afono, timoroso di scontentare una parte dei propri dirigenti ed elettori. Ma il Psoe, in realtà, ha scelto. Lo ha fatto già dopo le elezioni di dicembre, firmando un accordo di governo con Ciudadanos. Tutto lascia pensare che anche questa volta eviterà di governare con Podemos.

Per due motivi. Sa, come tutti coloro che hanno letto i documenti pubblici di Podemos in questi anni, che il suo principale obiettivo è sostituire il Psoe come principale partito progressista di Spagna. L’insistenza di Iglesias sulla volontà di formare un governo con i socialisti viene così interpretata come un «abbraccio mortale». Ma il motivo più importante è il secondo. Come tutti i partiti socialisti europei, la funzione del Psoe è quella di fare da garante, presso Ue e poteri economico-finanziari, delle politiche neoliberiste e di austerità. Per svolgere questa funzione, i coraggiosi socialisti europei sono disposti anche alla missioni suicide. Zapatero adottò politiche anti-popolari sapendo che gli avrebbero fatto perdere le elezioni. Hollande e Valls, piuttoto che trattare con movimenti e sindacati, aprono la strada a Sarkozy. Renzi è l’incarnazione estrema di questa vocazione al martirio (incorporata, come un timer, nella sua stessa ascesa).

Podemos è al centro della campagna elettorale del Psoe: lo personalizza, chiamandolo «il partito del signor Iglesias», sapendo che «il signor Iglesias» è il punto di forza e il punto di debolezza di Podemos, un leader polarizzante che suscita identificazione in chi lo vota e forte avversità negli altri. Lo descrive come un partito che ambisce all’accumulazione di «poltrone» e ad essere leader dell’opposizione, mentre non ha la volontà e la maturità per essere forza di governo. Sono armi spuntate. Igleasis è stato il primo, a gennaio, a proporre un governo presieduto dal socialista Sanchez, mentre il Psoe proponeva a Podemos quanto Bersani propose ai 5 Stelle nel 2013: votare il suo governo senza farne parte. Sul piano della propensione ad essere forza di governo, Podemos governa molte delle principali città spagnole, sostenuto anche dai socialisti.

Alla concentrazione dei socialisti su quanto avvenuto nei mesi scorsi, Podemos risponde con una campagna in positivo che parla esclusivamente del post-elezioni. Non si rivolge mai ai socialisti in modo polemico. Anzi, non si rivolge mai ai socialisti. Incassa gli attacchi e insiste sul fatto di considerare il Psoe il proprio alleato naturale. Ne seduce l’elettorato. Il discorso elettorale di Podemos, proprio dopo aver sancito con IU un’alleanza che lo colloca nettamente a sinistra, si è fatto più trasversalista che mai. Come si sa, dalla sua nascita, Podemos ha eletto frontiere e linee di divisione alternative alla contrapposizione destra/sinistra. Il suo discorso divide la società in due mondi contrapposti (come fanno tutti i discorsi politici efficaci): gente/casta; basso/alto; democrazia/oligarchia, maggioranza/élite, nuova politica/vecchia politica, cambiamento/continuità. Da un lato ci sono «Loro», gli avversari: la minoranza ricca e privilegiata, che sposta le sue ricchezze nei paradisi fiscali, non paga le tasse, corrompe, vive di connivenze con la politica, abbassa i salari, taglia i servizi, elimina diritti. Dall’altro lato «la gente», coraggiosa, umile, dignitosa, comune, anonima. Questa «gente» è la Patria spagnola. Gli avversari sono gli anti-patrioti, gli anti-sistema.

È questo un discorso populista? Lo è, se definiamo populista anche il discorso dei rivoluzionari francesi de 1789, formalmente del tutto affine a quello di partiti che oggi vengono definiti «populismi di sinistra»: il popolo contro i privilegiati, i produttori contro i parassiti, la volontà generale contro il dominio della minoranza. O quello di molti partiti comunisti del ‘900, e di molte rivoluzioni che oltre che socialiste sono state patriottiche e nazionali. Non che Podemos abbia nulla di rivoluzionario. Si presenta come un partito socialdemocratico, e lo è. Sostiene di essere il partito della legge e dell’ordine, che realizza la Costituzione, combatte la corruzione, rafforza i servizi pubblici, favorisce il lavoro stabile, opera una certa redistribuzione del reddito, realizza politiche espansive, garantisce a tutti l’accesso ai beni essenziali. Il linguaggio da campagna elettorale di Podemos non va molto al di là di questo. Non ha nulla di radicale. Assume un profilo che si potrebbe definire di liberalismo sociale. Più Stuart Mill che Marx, con venature di Eva Peròn.

Il partito si candida a riparare i guasti della crisi e delle politiche neo-liberiste, vuole aggiustare e modernizzare, più che trasformare. L’etichetta «populista» è quindi utile a comprenderlo solo se si intende il populismo come quello che è: poco più che una tecnologia comunicativa. Una tecnologia tremendamente efficace. Mentre il Psoe rischia di implodere, Podemos può raggiungere il suo obiettivo principale: sostituirlo. I veri problemi inizierebbero, come sempre per la sinistra, se dovesse andare al governo.