Europa

Il Pil, il Ttip e la media del pollo

Politiche L’economia torna a crescere, ma gli italiani non se ne accorgono. E il Trattato Usa-Ue incorona il primato delle imprese sui diritti delle persone

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 19 giugno 2015

Il Pil italiano ha ripreso a crescere, Un timido segno più che non cancella diverse perplessità. Una delle principali è legata alle componenti della domanda, dal 2007 a oggi. La crescita del Pil rimane comunque ben al di sotto dei livelli pre-crisi. Colpisce il ristagno dei consumi e il crollo degli investimenti, oltre il 25% in meno rispetto a 8 anni fa. Se l’andamento complessivo non è catastrofico, è grazie alle esportazioni, in costante crescita dal 2009 a oggi.

Il grafico evidenzia il risultato delle politiche mercantiliste dettate dalle istituzioni europee e abbracciate dai governi italiani negli ultimi anni: austerità che si riflette nei consumi e negli investimenti, e competitività come parola d’ordine fondamentale per vincere la concorrenza internazionale, perché sono le esportazioni a dovere guidare la crescita.
Una visione secondo la quale i governi non devono avere come obiettivo il benessere dei cittadini, ma la potenza commerciale del Paese. Sul piano fiscale, questo si traduce nel diminuire le tasse sulle imprese, anche se questo significa – per rispettare i vincoli europei – continui tagli alla spesa pubblica. A subirne gli impatti sono le fasce più povere a cui vengono ridotti i servizi. Gli stessi cittadini che vengono colpiti, sul piano del lavoro, dall’introduzione del Jobs Act, «un arretramento poderoso dei lavoratori nei rapporti di forza con il capitale, perseguito dal governo nella convinzione di agevolare l’imprenditore in un rilancio della crescita dell’economia».

In altre parole, le politiche pubbliche continuano a essere dal lato dell’offerta e non della domanda. Migliorare la competitività delle imprese invece di aggredire delle diseguaglianze crescenti e disastrose da almeno tre punti di vista: primo, lo scivolamento di fasce sempre più ampie della popolazione verso la povertà; secondo, se famiglie e lavoratori sono sempre più poveri, calano i consumi e crolla la domanda aggregata; terzo, aumenta la distanza tra un’economia che rimane al palo e una ricchezza finanziaria che continua a crescere: le condizioni ideali per una nuova bolla finanziaria.

Non solo. Una competitività inseguita tramite taglio del costo e dei diritti del lavoro e bassi investimenti significa che la concorrenza si fa sul prezzo, non sul prodotto, il suo contenuto tecnologico e l’innovazione. La gara è una corsa verso il fondo sul piano sociale, ambientale, fiscale, inseguendo l’abbassamento degli standard in ogni ambito. Ammesso e non concesso che si debbano accettare competitività e concorrenza, è possibile scaricarne il peso sulle spalle di famiglie e lavoratori che hanno già pagato il prezzo più alto per la crisi di questi anni? O un rilancio dell’economia dovrebbe significare investire sulla ricerca, sulla riconversione ecologica dell’economia, sulla creazione di posti di lavoro in settori strategici per il Paese? Il Workers Act di Sbilanciamoci! mostra concretamente come si potrebbe procedere in questa direzione.

Un’alternativa che necessiterebbe di “capitali pazienti” per investimenti di lungo periodo. Impossibile nel momento in cui, per definizione, la finanza pubblica è il problema e quella privata la soluzione, e nel momento in cui questa finanza privata ragiona in millesimi di secondo e ha purtroppo ampiamente dimostrato di non essere in grado di operare nell’interesse generale. Impossibile in un Paese in cui non si può nemmeno parlare di un piano per l’occupazione e in cui manca da decenni un piano energetico e industriale – o meglio, dove l’unica politica industriale è un piano di privatizzazioni a tappeto.

È in questo quadro teorico che si inserisce il Ttip, trattato di libero scambio in discussione tra Usa ed Europa. Per molti versi il coronamento di una visione in cui i diritti delle imprese prendono il sopravvento su quelli delle persone, in cui ogni questione sociale, ambientale, di sicurezza dei cittadini o di principio precauzionale viene calpestata, in cui tribunali speciali sono chiamati a tutelare gli investitori esteri in una giustizia a senso unico. Per l’ennesima volta l’export a ogni costo, ed è un costo elevatissimo in termini sociali e ambientali.

Al colmo del paradosso, tutto questo per un modello che rischia di essere fallimentare anche da un punto di vista meramente economico. Le previsioni di crescita aggiuntiva legata al Ttip sono a dir poco modeste anche nelle proiezioni più ottimistiche, mentre la minima ripresa che si registra parte da fattori esogeni, ovvero che nulla hanno a che vedere con le decisioni del governo. Parliamo in particolare della coincidenza di un basso prezzo del petrolio e di un basso valore dell’euro. Il primo significa migliorare la bilancia dei pagamenti, visto che l’energia importata costa meno. L’euro debole significa esportazioni più semplici.

Un euro debole legato essenzialmente al Quantitative Easing della Bce. Già prima di tale misura la zona euro registrava un surplus commerciale dell’ordine dei 15-20 miliardi di euro al mese. Un surplus che sta continuando ad aumentare, creando tensioni con il resto del mondo. Un mondo di dimensioni finite, dove è quindi difficile capire come tutti possano esportare più di tutti gli altri. Il QE si riduce allora all’ennesima arma nella corsa verso il fondo: una svalutazione monetaria da affiancare a quella del lavoro, dei diritti e delle tutele normative, per vincere la gara usando la nota strategia del beggar thy neighbour (letteralmente «frega il tuo vicino»).

Molto si è scritto su quanto istituzioni e media facciano a gara per condannare i deficit della Grecia e degli altri Paesi del Sud Europa, mentre molto meno si dice dell’eccessivo surplus della Germania. Al contrario, seguendo il dogma attuale, tutta l’Europa deve seguire il virtuoso esempio tedesco e arrivare nel giro di pochi anni a un surplus della bilancia dei pagamenti.   È questa la direzione in cui si muove l’Italia, dove le esportazioni verso gli altri Paesi Ue sono praticamente costanti da quattro anni a questa parte, ma quelle extra-Ue sono cresciute del 40% dal 2010 a oggi.
Se la strategia è chiara, esportare sempre di più, rimane però una domanda fondamentale: a chi? L’area euro è già oggi nel suo insieme tanto l’area più ricca quanto quella con il maggiore surplus commerciale del pianeta. Parliamo di una bilancia delle partite correnti che ha chiuso lo scorso anno a + 358 miliardi di dollari, a fronte dei + 221 della Cina, al secondo posto per il maggiore saldo positivo. Partendo da questa situazione, l’unica strategia per il futuro è mettere in campo politiche estremamente aggressive per continuare ad aumentare surplus e export. Ma a chi mai potremo continuare a esportare sempre di più? Il Pil forse potrà crescere, ma il famoso pollo di Trilussa è in sempre meno mani. Con l’aggiunta che, se passa il Ttip, il pollo sarà pure transgenico.

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