IN FAMIGLIA la chiamavamo Il cantonale, ma lei non lo sapeva. Quel soprannome veniva sussurrato fra i denti e mai in faccia alla nonna per rispetto e timore. Da una parte la sua stazza era davvero portentosa, dall’altra aveva un’indiscussa e riconosciuta autorevolezza, soprattutto in fatto di cibo e cucina. Tale supremazia si esprimeva in particolare durante le feste comandate, quando la tavola diventa il fulcro della festa e mangiar bene è un comandamento imprescindibile.
La nonna Angiolina era una cuoca bravissima. Lo sarebbe ancora se i suoi 104 anni glielo permettessero, ma la testa e il corpo non sono più quelli di quando eravamo bambini e, sebbene sappia ancora distinguere un bicchiere di vino buono da uno scadente e mangi con gusto, dei piatti che preparava non ricorda più le ricette e se le chiedi, per esempio, quella dei tortelli sfogliati, fa un po’ di casino perché salta dei passaggi essenziali.

ALLA CENA della vigilia di Natale, come si sa, si dovrebbe mangiare di magro, quindi niente carne né affettati. In molte parti d’Italia si cucina il pesce, ma da noi, in provincia di Parma, il pesce era un illustre sconosciuto, non lo si mangiava mai e non lo si sapeva nemmeno cucinare. L’unico essere acquatico che una volta ogni due anni compariva in tavola era il pesce gatto, che fa davvero schifo perché sa di pantano ed è pieno di lische, per cui lo si evitava con cura a meno che qualche perfido conoscente ce lo regalasse.
Un po’ per queste ragioni e un po’ perché in famiglia si gestiva un’osteria con emporio annesso, la questione veniva risolta servendo anguilla e tonno, ma mica freschi, bensì pescati da giganteschi recipienti di metallo rosso che comparivano in negozio prima di Natale. L’anguilla la mangiava solo nostro padre, tutti gli altri preferivano il tonno che, benchè in scatola, consideravamo migliore di quella biscia viscida a pezzetti. Sarebbe stata una cena tristissima se, prima, non ci fossero stati i famosi gnocchi della nonna Angiolina.

LEI SCEGLIEVA le patate giuste, le faceva bollire, noi la aiutavamo a pelarle scottandoci le dita, poi lei le passava nello schiacciapatate, salava, aggiungeva farina, uova e, soprattutto, olio d’oliva che, diceva «Fa gnire i gnocchi più moresini che però non si taccano quando li condisi». Per impastare il tutto usava un tagliere posato sopra un tavolo lungo due metri e largo uno, con il piano di olmo e le gambe di pino rosso massicci, lo stesso dove poi avremmo cenato tutti e otto insieme, un bestione solidissimo che, tuttavia, sotto le potenti braccia della nonna tremava a ogni su e giù. Altro che Bimbi o impastatrice, altro che diavolerie tecnologiche da chef contemporanei, l’Angiolina era lei stessa una macchina da tortellini, anolini e gnocchi perché aveva spalle, braccia e mani così potenti che c’era da sperare non le venisse mai la voglia di darti uno schiaffo, cosa che per fortuna non ha mai fatto.

UNA VOLTA preparati con l’impasto dei lunghi rotoli, lei li tagliava in tondini regolari che noi arricciavamo con le dita stando attenti a creare nell’interno una piccola conca che avrebbe accolto più sugo possibile. I condimenti erano due, rosso e bianco, il primo a base di salsa di pomodoro, il secondo con tantissimo burro e parmigiano. Entrambi venivano serviti in due pirofile trasparenti contese dai tre partiti della famiglia. C’era quello di minoranza che prediligeva gli gnocchi rossi, quello di maggioranza che optava solo per i bianchi, quello del piede in due scarpe che li mangiava tutti e due, uno dopo l’altro, oppure i bianchi la sera e i rossi avanzati il mattino dopo, saltati in padella. Ci strafugavamo così tanto di gnocchi che il tonno in scatola restava quasi sempre intonso. Dopo, a nessuno è mai venuto in mente di andare alla messa di mezzanotte. Da una parte si era tutti credenti blandissimi, dall’altra c’era un bisogno primario: digerire